America
domenica 3 Novembre, 2024
di Simone Casciano
Alberto Simoni risponde al telefono da Las Vegas. Dalla finestra può vedere le luci e lo spettacolo della «Strip» della «Città del peccato» americana, ci separano più di 9.400 chilometri. «Kamala Harris e Donald Trump invece sono vicinissimi, sono entrambi qui» ci racconta il corrispondente de La Stampa dagli Stati Uniti, originario di Tione, Simoni da settimane sta seguendo da vicino la corsa elettorale più incerta della storia recente americana e in particolare la campagna di Donald Trump. «Sarà una sfida davvero serrata, prepariamoci a una lunga notte in Italia per capire come sarà andato il voto».
Simoni se un anno fa le avessi detto che la candidata dei democratici sarebbe stata Kamala Harris cosa avrebbe pensato?
«Che un anno fa non sarebbe successo. Diciamo che il ritiro dalla corsa di Biden il 21 luglio non lasciava molte alternative ai democratici, oltre a portare la candidatura della vicepresidente. Il passo indietro di Biden è arrivato troppo a ridosso della Convention democratica e sarebbe stato un suicidio arrivarci senza un nome chiaro. La premessa da fare quindi è che Harris è la candidata perché non avevano alternative, non c’era tempo per le primarie e arrivare alla convention senza un nome era uno scenario da evitare. Se Biden si fosse ritirato un anno fa, tutti i democratici che ambivano alla Casa Bianca si sarebbero fatti avanti. In quello scenario Harris avrebbe partecipato alla corsa, ma non è scontato pensare che avrebbe vinto, anzi, nonostante 3 anni di vicepresidenza l’abbiano rafforzata, nessuno l’avrebbe data favorita in una primaria aperta».
Come si è comportata Harris in questi 3 mesi?
«In America una campagna elettorale di tre mesi non c’è mai stata. Io credo che lei abbia fatto quello che doveva fare, che non significa che vincerà, ma che ha fatto bene. Ha giocato sull’entusiasmo, frutto del ritiro di Biden, che in 50 giorni le ha permesso di colmare il divario con Donald Trump nei sondaggi. Poi però, dopo il «labour day» del 2 settembre, le cose si sono complicate quando è venuto meno l’entusiasmo. A quel punto siamo entrati in dinamica di campagna elettorale più tradizionale e lì sono emerse le sue difficoltà, non tutte di sua responsabilità. La prima problematica è che non è molto conosciuta, noi abbiamo questa idea dell’America, vista da casa nostra, che tutti negli Stati Uniti sappiano chi è la Vicepresidente o il Presidente del Senato e invece non è così, molti americani non sapevano chi fosse. Essere riconoscibili e riconosciuti è la prima cosa che fanno i candidati e di solito ci vuole un anno per ottenere quella visibilità. Quando parlo di riconoscibilità intendo sapere chi è la candidata, cosa ha fatto e che posizione ha su tante questioni: fracking e aborto per citarne due. Per fare questo ci vuole tempo, un fattore che non è dalla parte dei democratici. Tant’è che i sondaggi da settembre sono piatti per Harris: non perde ma non guadagna. Questo è ciò che ci fa dire che questa elezione è appesa a un filo e si scoprirà solo alla fine chi vincerà».
Dall’altra parte forse non abbiamo mai visto un Trump così feroce? Parla di deportazioni, di regolare i conti con i nemici interni…
«Trump è Trump, non è cambiato di una virgola rispetto a 8 anni fa. I suoi discorsi sono sempre degli show carichi di battute, alcune grevi, carichi di posizioni politiche forti e villane in alcuni casi. Se Trump non cambia è perché vede che quelle idee hanno un seguito. C’è chi ha pensato che dopo l’attentato di Butler avremmo visto un Trump diverso, ma gli osservatori più attenti sapevano che non sarebbe stato così. E infatti è durato giusto 20 minuti del suo discorso alla convention di Milwaukee e poi è tornato a dire e fare le cose che lo hanno reso Trump. Io ho seguito il suo primo comizio vero nel gennaio del 2022 in Arizona e c’era lo stesso popolo che ho incontrato di nuovo in queste settimane, un popolo di fedelissimi a cui oggi dice le stesse cose che diceva ieri. Un linguaggio feroce, fatto di insulti e attacchi, può non piacere, ma sono le cose che lo hanno portato ad avere il seguito e quel consenso, se non di metà America, di una buona parte e sufficiente per il sistema elettorale americano basato sui grandi elettori. Non mi stupisce, e forse è un problema, la campagna elettorale feroce, chiaro che mi colpisce il suo linguaggio e quello di chi lo precede e lo segue sul palco. Battute razziste e sessiste, però attenzione: la ferocia e gli attacchi hanno sempre fatto parte del confronto politico delle ultime settimane delle elezioni Usa seppur mai a questo livello, non giustifico, ma provo a capire e spiegare».
Si parla spesso di stati chiave (swing states) su quali ci dovremo concentrare?
«Sono 6 o 7 gli stati sui ci concentrarsi per capire chi vincerà: Georgia, North Carolina, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Arizona e Nevada. Insieme fanno 93 grandi elettori, ad oggi Kamala Harris è in vantaggio, ma senza una buona parte di questi 93 non si arriva al magico numero di 270 delegati che garantiscono la Casa Bianca. I risultati arriveranno nella notte italiana a partire dall’1 di notte nell’ordine elencato prima degli stati. I sondaggi sono tantissimi ed è difficile fare una previsione. Quando arriveranno gli exit poll della Georgia, e poi le prime proiezioni, ci sono tre scenari: vantaggio Trump, vantaggio Harris o “too close to call”, ossia troppo in bilico per assegnare lo stato. Secondo me questo scenario è quello più probabile: una lunga ed estenuante notte di attesa che gli stati in bilico vengano assegnati. I più importanti da tenere d’occhio sono Georgia e Pennsylvania. Il secondo scenario, più improbabile, è quello che veda i sondaggi ribaltati: quindi Harris in vantaggio subito di 4 o 5 punti in Georgia o un risultato simile per Trump. Se dovesse succedere è altamente probabile che si capirà in fretta chi sarà il nuovo presidente americano».
Il sostegno di miliardari alle campagne elettorali è cosa nota, ma mai nessuno era stato plateale come Musk per Trump. Cosa spera di ottenere?
«Ha ragione quando dici che è stato molto plateale, tanto che la sua lotteria è finita sotto l’attenzione di un tribunale federale. Musk è un personaggio controverso, con tantissimi interessi e interconnessioni con lo Stato americano, ha contratti miliardari con il Pentagono e l’amministrazione. La domanda è quanto i miliardari possano influenzare il voto degli americani. I finanziamenti ci sono sempre stati e fanno parte della vita politica e della dialettica americana. Quello che oggi rende più fosco lo scenario è il fatto che questi miliardari, non solo finanziano le campagne elettorali, ma sono anche titolari di piattaforme e aziende che hanno un impatto diretto sulla formazione delle coscienze e della conoscenza. Penso a Musk con X, Zuckerberg con Meta o a Pichai con Google. Gli ultimi due non sono sul palco con Trump come Musk, ma hanno anche loro una grande influenza. Io credo che questo mondo dell’hi-tech, queste grandi aziende dei social, che producono ricchezza pari ai Pil di nazioni, non sono mai state regolamentate e ora il Congresso si è reso conto di questo potere, ma non riesce a controllarlo, a dare delle regole per limitarne il campo di influenza. E allora Musk ci fa effetto, ma sul palco per Harris ci va Mark Cuban, un altro miliardario e grande comunicatore, e che oggi è l’uomo che sta spiegando, in tv e nei podcast, l’agenda economica dei democratici. Insomma i miliardari stanno giocando con un ruolo più visibile, rispetto a quando si limitavano ai finanziamenti. Non so se è questa la direzione verso cui la democrazia voglia o debba andare, ma è chiaro che avere questi personaggi è una novità».