l'esperto
sabato 12 Agosto, 2023
di Davide Orsato
Il problema a monte è sempre quello. Manca personale. Personale specializzato, laureati in psichiatria, ma anche assistenti sociali ed educatori. Secondo la Sip, la Società italiana di psichiatria, al centro di salute mentale di Rovereto, competente anche per Arco, ci dovrebbero essere otto medici. Ma, attualmente, lavorano in tre. La situazione è stata segnalata anche al direttivo nazionale, che di cose come queste ne ha sentite tante. «Ovunque mancano persone e, anche se sono aumentati gli studenti delle specialità, ma non in modo sufficiente per coprire il turnover». A parlare è Massimo Clerici, psichiatra milanese, vicepresidente Sip e presidente della Società italiana psichiatria delle dipendenze.
Professor Clerici, da giorni emergono «falle di sistema» sulla vicenda di Chukwuka Nweke: si lamenta di un mancato intervento, di una «presa in carico carente». Che idea si è fatto?
«Spesso in Italia si tende a separare il trattamento delle dipendenze dalla tutela della salute mentale. Questo è in generale un grave errore: qualsiasi manuale di psichiatria chiarisce che l’abuso di sostanze, droghe ed alcol è direttamente correlato alle patologie mentali. Non solo, è ciò che ha la maggiore correlazione con episodi violenti. Una persona può essere bipolare o schizofrenica, ma se c’è un abuso è più facile che manifesti comportamenti antisociali».
Si è parlato molto, in questa vicenda, di Tso, il trattamento sanitario obbligatorio. Avrebbe aiutato?
«Non credo. Il trattamento sanitario obbligatorio dura in genere poco e non è mirato a curare le dipendenze. Il problema è un altro…»
Ovvero?
Che in Italia manca una legislazione che preveda il ricovero coatto di chi fa uso di sostanze. Si perde tantissimo tempo a distinguere tra droghe leggere e pesanti e poi si lasciano libere persone che potrebbero essere un pericolo per se stessi e per gli altri. E pure si tratta di sintomi psichiatrici che andrebbero curati come tali».
E serve anche tempo…
«Certo, per guarire dalle dipendenze ci vuole un ricovero in comunità, con un percorso adeguatamente lungo».
Si parla spesso anche delle criticità legate al carcere di Trento, dove il numero di detenuti dipendenti è molto alto.
Anche questo è un problema comune a diverse carceri italiane. Purtroppo solo alcune sono attrezzate con delle valutazioni psichiatriche che sappiano aiutare fino in fondo i detenuti, anche separando le situazioni più pericolose. Faccio un esempio: non si può mettere un depresso con soggetto antisociale. Persone con necessità diverse vanno curate diversamente. Ma va formata adeguatamente anche la polizia penitenziaria, per far fronte a un problema che è sempre più generalizzato».
E le Rems, le residenze che hanno sostituito i vecchi ospedali psichiatri giudiziari?
Si tratta di un problema organizzativo complesso: mancano posti letto e le garanzie ottimali per farli funzionare bene. Ma non sono la risposta a tutto e, soprattutto, non sono la risposta alle forme di dipendenze gravi.
C’è il rischio che quello di Nweke non sia un caso isolato?
«Assolutamente sì. C’è una diffusione di sostanze pericolose allarmante. Scene come quelle riprese in passato, come le aggressioni sui passanti le vediamo ogni giorno e sono spesso indotte da droghe. Molte persone socialmente fragili girano in queste condizioni e la situazione è peggiorata, in particolare dopo la pandemia, anche se il trend lo notavamo da diversi anni».
Che si può fare di concreto per affrontare l’emergenza?
«Serve una maggiore attenzione e soprattutto occorre un maggior dialogo tra le strutture che si occupano della presa in carico del caso psichiatrico. Certe distinzioni non hanno più senso: bisogna mirare alla cura della persona. Per quanto riguardano il personale, ci vorranno molti anni per formare i nuovi psichiatri. Ma se non si investe sarà impossibile avere i numeri sufficienti».
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