Il libro

sabato 8 Luglio, 2023

Sostenibilità? Meglio parlare di bellezza. Stefano Zecchi presenta la sua «rivoluzione conservatrice»

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Il presidente del Muse ha presentato ad Arco «La terra dei figli»: «La politica ha responsabilità estetiche negli spazi pubblici»

«Una rivoluzione conservatrice» che passa anche dall’arte e dalla bellezza. Stefano Zecchi, professore ordinario di estetica, filosofo, scrittore e presidente del Museo delle Scienze di Trento, ha presentato il suo ultimo libro «La terra dei figli» pubblicato da Signs Books nella serata culturale del ciclo «Arx. La cittadella delle idee», l’iniziativa promossa dall’imprenditore Roberto De Laurentis con lo slogan «Cultura libera e senza fronzoli», per diffondere stimoli e vitalità contro l’appiattimento della discussione pubblica.

La presentazione, in dialogo con la professoressa e giornalista del «T» Maria Viveros, si è tenuta davanti al pubblico raccolto nella sala degli affreschi del Palazzo Marchetti di Arco. Stefano Zecchi è stato assessore alla cultura a Milano, nominato presidente del Muse nell’aprile 2019, e quest’anno firma la sua pubblicazione con la prefazione del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che attribuisce alle parole dell’autore, per l’appunto, «una rivoluzione conservatrice», un viaggio nella contemporaneità verso il porto della bellezza. La bellezza è un tema centrale nel lavoro di Stefano Zecchi, che durante la presentazione ha ricordato il suo omonimo libro pubblicato nel 1993, nonché il saggio e manifesto del «Mitomodernismo», di cui è fondatore. «In quel periodo – ha raccontato Zecchi – parlare di bellezza era quasi un’offesa al modernismo, era provocatorio. La bellezza è stato un libro difficile da pubblicare perché andava a scontrarsi con il canone del tempo. Sono lusingato dalla sua ripubblicazione. Al tempo era cruciale il tema del progresso, come visione verso il futuro. Oggi la parola chiave è diventata sostenibilità, che nonostante la sua importanza, presenta una continua banalità nella sua proposta. Sostenibilità in fondo ci indirizza verso un paradosso, il progresso che non sia contro il progresso. In questi trent’anni si è affermata la bellezza che ha depotenziando il concetto di progresso, perché ha dato spazio all’accumulo in contrasto con la qualità della vita».

Stefano Zecchi ha ricordato l’importanza dello sviluppo urbano: «Esiste una responsabilità politica verso la bellezza degli spazi pubblici, che per essere tutelata necessita di una educazione estetica, che insegni rispetto e senso di decoro verso il borgo. Bisogna conservare e trasmettere la storicità del posto anche quando è stato restaurato, e capire come mettere insieme le cose che c’erano una volta con quelle che esistono adesso. La bellezza significa lasciare un sentimento, una testimonianza a chi viene dopo. Se si toglie questo si toglie tutto. Per quanto riguarda la questione delle periferie delle grandi metropoli, queste realtà urbane diventano vere e proprie zone di degrado perché non hanno la possibilità di costruire un’identità di riferimento. Per esempio, nel dopoguerra l’amministrazione comunale di Milano ha deciso di formare una rete di Comuni intorno alla realtà urbana. Questa cintura ha garantito ai diversi centri un’identità di riferimento vicina, verso i luoghi della scuola, della piazza, della chiesa o del cinema. Queste scelte sono le responsabilità degli architetti».

La questione identitaria ha portato alla luce il tema dell’immigrazione: «La mia visione del cosmopolitismo non è legata all’illuminismo, ma al romanticismo, legata all’idea della terra dei padri e della casa. Andiamo verso il futuro con la storia che ci appartiene sulle spalle, e il figlio che ci è testimone portato per mano. Dobbiamo essere orgogliosi della nostra patria. L’ospite può diventare una persona di casa, ma tu devi essere consapevole di che cosa significa la tua Heimat. L’assimilazione come politica è fallita perché non si può togliere l’identità. Dobbiamo essere consapevoli di quale sia il nostro territorio, il nostro mondo, per diventare consapevoli della nostra storia. Solo allora possiamo essere disposti ad un continuo confronto con l’altro. È insensato costruire dei fili spinati, ma come terra di confine dobbiamo capire la nostra disponibilità».