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mercoledì 15 Novembre, 2023

Stefano Allievi: «Ci servono 250mila migranti. Basta approcci ideologici»

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Il sociologo ha presentato a Trento il suo nuovo libro: «Governare le migrazioni»

Dice il postulato fondamentale di Lavoisier, principio fondante della chimica moderna, che «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». Volendo semplificare molto, è il messaggio che il professore Stefano Allievi, tra i più importanti sociologi d’Italia e docente all’Università di Padova, prova a comunicare con il suo ultimo libro: Governare le migrazioni. Il principio da cui partire è che le migrazioni sono fenomeni che non si possono bloccare, esistono è un dato di fatto. Nulla si crea e nulla si distrugge quindi. Sono allora le politiche dei governi a decidere come trasformare questo fenomeno, se in una soluzione o in un altro problema. Per Allievi è fondamentale che l’Italia se ne renda conto, anche perché le migrazioni possono essere un’opportunità. Di tutto questo parlerà questa sera alle 21 alla Bookique in occasione dell’incontro organizzato da Futura Trento.
Professore leggendo il suo libro è evidente un approcio pragamtico al fenomeno migratorio, lontano dalle ideologie.
«Assolutamente. È un libro post-ideologico e pragmatico. Credo che in molti si siano stancati di un dibattito ideologico, di principio e inconcludente. Non si arriva mai alla soluzione del problema ci si ferma alla sua enunciazione. La mia posizione, di chi si occupa di questo da quasi 40 anni, è che le migrazioni sono un dato fisiologico delle società e che cresceranno sempre di più. Come la pioggia, non puoi decidere se cade o meno. Quindi se è un fenomeno se lo gestiamo funziona tutto, ma se ci rifiutiamo diventa un problema. Ecco la politica si rifiuta di gestirlo».
Per l’Italia le migrazioni possono essere un’opportunità?
«Devono esserlo. Dobbiamo leggere il fenomeno migratorio attraverso la lente della demografia, dello sviluppo, dell’istruzione e del lavoro. Siamo il paese più vecchio del mondo assieme al Giappone. Questo ha conseguenze drammatiche, già oggi abbiamo un rapporto di 3 lavoratori attivi ogni 2 inattivi, ma prima del 2040 il rapporto sarà di 1 a 1. Solo questo dato è devastante. Poi già ora è evidentela disponibilità di lavoro in Italia. Le stime dicono che abbiamo bisogno di manodopera, 250mila persone ogni anno. Questo significa che tutti i migranti arrivati quest’anno non sono sufficienti per compensare il calo di lavoratori nel paese. Il problema non è che arrivano, ma il modo in cui arrivano. Non c’è un problema di invasione, al massimo di scomparsa dell’Italia. Il calo demografico è una minaccia per il nostro sistema previdenziale, ma anche per la tenuta del sistema economico. Non è un caso che anche Confindustria e Confartigianato lancino l’allarme. È un dato di fatto, senza migranti le attività chiudono. Non bastano dirigenti e amministrativi e alcuni lavori gli italiani diplomati e laureati non li vogliono fare se non da giovani».
Insomma bisogna governare i flussi?
«Esatto e il problema è che o non lo si fa o lo si fa male, sempre a causa di quell’approcio ideologico. Io sono d’accordo se ci dividiamo sulle soluzioni, ma essere in disaccordo sull’esistenza del fenomeno no. Ed invece è quello che stiamo facendo. Faccio un esempio, si sente spesso dire: “I richiedenti asilo sì e i migranti economici no”. Ora alla luce dei dati di cui abbiamo parlato noi avremmo bisogno proprio dei migranti economici. Di chi vuole venire per lavorare e costruire una famiglia. Negare l’esistenza del fenomeno fa male a loro, ma anche a noi. Il paese ha bisogno di un’onesta operazione verità. Il dato è che abbiamo bisogno di 250mila migranti l’anno. Le domande che ci dobbiamo fare sono: Come li facciamo arrivare? Come li integriamo? Invece ci rifiutiamo di fare tutto questo e invece creiamo la figura del richiedente asilo di massa, perché concediamo pochissimi permessi di soggiorno per lavoro e molti più di asilo. Ma dicendo no ai migranti economici, decidiamo di non regolare noi il meccanismo di lavoro e se non lo fa lo stato se ne occuperà qualcun altro: i caporali e le mafie transnazionali».
Gli ultimi ideologici rimasti sono quei politici che si rifiutano di accogliere?
«Non solo. Di sicuro è molto presente questa idea di rifiuto integrale dell’accoglienza, ma un approcio non pragmatico e ideologico caratterizza anche chi è favore dell’accoglienza perché spesso si preoccupa di salvarli, ma non pianifica cosa fare dopo. Per questo motivo nel libro io evito di parlare di valori e mi concentro sugli interessi reciproci. Interesse è una bella parola, è su questo che si costruiscono le relazioni».
Cosa sbagliamo nella gestione dei flussi?
«Noi non li governiamo proprio. Dobbiamo fare accordi con i paesi di origine, ma non quelli che si fanno ora. Dobbiamo collaborare con loro. Da una parte mettiamo a disposizione una quota di ingressi regolari e ne frattempo li responsabilizziamo sui rimpatri di quelli irregolari. Possiamo discutere su quali requisiti deve soddisfare chi vuole arrivare, ma non sul fatto che la strada sia questa».
Ben diversa da accordi come quello con la Tunisia.
«Quello non funziona e non funzionerà. Primo perché la strategia soldi in cambio di controllo è fallimentare. Saied non lo può garantire perché o risolve il problema della disoccupazione nel paese o la gente continuerà a migrare, senza contare che la Tunisia è un paese di transito. Ma è l’accordo a essere sbagliato. Siamo noi a dover governare il fenomeno creando dei corridoi di ingresso regolari basati su criteri, non possiamo aspettarci che facciano il lavoro al posto nostro. Pensiamo che siano dei paesi primitivi che obbediscono a noi, ma non è così. Sono paesi strutturati che giustamente fanno il loro interesse».
Discorso simile per l’Albania?
«Ancora più paradossale e serve solo a dare un messaggio ideologico. È come se costruissimo un ospedale a Tirana a spese nostre per risolvere il problema delle liste d’attesa. Pensiamoci, prendiamo una base militare, la ristrutturiamo a spese nostre, diamo soldi all’Albania, ci mandiamo il nostro personale amministrativo e di polizia (a cui pagare pure l’indennità di trasferta). In pratica facciamo lì a un costo più alto quello che potremmo fare in una qualsiasi città italiana».
Cittadinanza, va riformato il sistema?
«Io constato che abbiamo una delle leggi più restrittive d’Europa. Soprattuto per le seconde generazioni in altri paesi è più facile. Invece da noi abbiamo una legge cattivista, un ragazzo nato in Italia può richiederla solo al diciottesimo anno d’età e deve farlo prima del diciannovesimo, altrimenti perde questo diritto senza un motivo. In più poi ci vogliono anche 4 anni per riceverla. Immaginiamo se a noi venisse detto che dobbiamo aspettare 4 anni per ricevere un documento come reagiremmo».
Come la riformerebbe?
«Io sono molto favorevole al meccanismo del cosiddetto Ius scholae o Ius culturae. Quindi credo sia giusto riconoscere a questi giovani la cittadinanza una volta completato il ciclo scolastico. Ricordiamoci che la cittadinanza è un diritto, non una gentile concessione che ci viene fatta».