Etica
lunedì 30 Dicembre, 2024
di Emanuele Paccher
Sono passati cinque anni dalla celebre sentenza 242 della Corte costituzionale sul caso di Fabiano Antoniani, noto a tutti come Dj Fabo, nella quale la Consulta stabilì la non punibilità di chi aiuti il suicidio di una persona malata in modo grave e irreversibile, tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, con sofferenze intollerabili ma pur sempre pienamente capace di intendere e di volere.
Mezzo decennio nel quale quasi nulla è cambiato: soltanto una recente sentenza del luglio di quest’anno ha allargato le maglie del suicidio medicalmente assistito, andando ad ampliare il concetto di trattamenti di sostegno vitale. Si tratta comunque di interventi minimi, oltretutto compiuti dalla Corte costituzionale e non dal Parlamento.
Sono in molti a denunciare una situazione legislativa inadeguata alla realtà sociale, a quelle che sembrano essere le istanze della maggioranza della popolazione. Qualcosa, nel meccanismo democratico, sembra dunque essersi incrinato: il Parlamento non sembra più in grado di rispondere ad alcune delle esigenze della società. A sostenerlo è Carlo Casonato, professore ordinario di diritto costituzionale comparato all’Università degli Studi di Trento, nonché coordinatore del laboratorio di biodiritto dell’Università e componente del comitato etico del Cnr. A lui ci siamo rivolti per avere uno sguardo a tutto tondo sul tema.
Professor Casonato, a che punto siamo oggi in Italia sul tema del suicidio medicalmente assistito?
«La mia sensazione, lavorando sia con i professionisti che con gli studenti, è che oggi ci sia una tendenza a riconoscere un maggiore rispetto alla volontà individuale anche nelle fasi del fine vita. il codice di deontologia dei medici è stato di recente aggiornato prevedendo la possibilità di aiutare una persona nel suicidio, altri ordinamenti vicini a noi prevedono già da anni la possibilità del suicidio medicalmente assistito. A fronte di queste aperture dalla società, dal diritto comparato e dal livello deontologico professionale manca il passo in avanti della politica. Ci troviamo con un Parlamento che non è in grado di allinearsi a questa tendenza della società».
Visto che ce l’ha accennato guardiamo al diritto comparato: com’è la situazione negli altri Paesi dell’Unione Europea e nel resto del mondo?
«Altri ordinamenti molto vicini a noi hanno disciplinato e permesso l’assistenza al suicidio. In Olanda, Belgio, Lussemburgo e Spagna è possibile sia il suicidio medicalmente assistito che l’eutanasia (nel primo è la persona malata a somministrarsi il farmaco letale, nel secondo è una terza persona a somministrarlo, ndr). Nel Regno Unito non c’è una legge che preveda il suicidio assistito, ma c’è un meccanismo secondo il quale il prosecutor non si attiva per iniziare il procedimento penale nei confronti di chi aiuti una persona malata in modo grave e irreversibile, che abbia delle grandi sofferenze, che abbia chiesto ripetutamente l’assistenza al suicidio, purché non agisca per nessun motivo economico e purché la persona che lo assiste sia mossa solo da compassione. Anche in Francia c’è una situazione simile: il reato formalmente c’è ancora, ma in alcuni casi si cercano delle vie per non punire le persone che lo commettono. Guardando fuori dal continente europeo, il Canada ha una legge che permette sia l’assistenza al suicidio che l’eutanasia, mentre negli Stati Uniti sono circa una dozzina gli Stati che permettono l’assistenza al suicidio».
Torniamo ora in Italia. La Corte costituzionale andando a disciplinare la materia non ha un po’ invaso il ruolo del Parlamento?
«Più che di invasione del terreno altrui la considerazione da fare è che il Parlamento non riesce a fare il suo lavoro. Tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza delle persone avrebbe agito esattamente come ha fatto la Corte. Poi la Consulta aveva dato un anno di tempo al Parlamento con l’ordinanza 207 del 2018 prima di decidere. Un anno in cui il Parlamento non ha fatto nulla, così come non lo ha fatto neanche fino a oggi. Occorre dunque trovare delle vie alternative per rappresentare la reale sensibilità sociale di un Paese. Si tratta di una cosa molto pericolosa, che va fatta con estrema cautela. Ma mi sembra che nel caso del 2019 tutte le cautele siano state adottate. La Corte si è trovata a dover tutelare i diritti costituzionali di Dj Fabo, che si trovava di fronte a un divieto assoluto di assistenza al suicidio anche in un caso così estremo come il suo».
In quali casi risulta dunque ammesso il suicidio medicalmente assistito?
«La sentenza 242 del 2019 ha reso non punibile l’assistenza al suicidio in presenza di quattro condizioni. Si tratta della presenza di una malattia grave e irreversibile che provoca sofferenza psicologica o fisica intollerabile. Nonostante ciò, deve esserci piena consapevolezza e capacità di esprimere un consenso. Questi primi tre requisiti li troviamo in tutti gli ordinamenti. Il quarto invece c’è solo in Italia e si tratta della presenza di un trattamento di sostegno vitale».
Come mai la Corte ha aggiunto questo requisito?
«Lo ha fatto perché la Corte non è come il Parlamento. Nella sua sentenza ha applicato il principio di uguaglianza prima ancora che quello di autodeterminazione. In sostanza ha detto: se le persone che hanno un trattamento di sostegno vitale hanno il diritto di interrompere il trattamento e dunque di morire in un termine breve, e questa è una cosa riconosciuta da anni, perché non riconoscere l’uguale diritto a chi si trovi nella situazione di Dj Fabo? Fabiano Antoniani aveva delle ridotte capacità di respirazione. Poteva sì decidere di sospendere il trattamento di sostegno vitale, nel suo caso la ventilazione meccanica, ma ci avrebbe messo alcuni giorni, se non una settimana, a morire. È vero che sarebbe stato sedato, ma i famigliari avrebbero visto l’agonia di un loro caro durare per giorni interi. Di fronte a situazioni come queste il diritto deve stare attento alla dimensione della pietas, dell’umanità. Che senso avrebbe avuto costringere Dj Fabo e i suoi famigliari a un’agonia prolungata? La Corte, di conseguenza, ha previsto la non punibilità di chi ha aiuti il suicidio di chi si trovi in quelle condizioni».
Casi del tutto eccezionali dunque…
«Sì. I casi infatti in questi anni sono stati molto limitati. La Corte ha stabilito quei quattro requisiti, ma poi deve esserci una procedura per verificare il rispetto di quei requisiti. Deve esserci una struttura del sistema sanitario nazionale che dia il proprio assenso e dev’esserci anche il controllo di un comitato etico. Ci sono stati dei casi in cui il sistema sanitario nazionale ha detto di sì e il comitato etico non ha risposto o ha comunque trovato dei motivi per non permettere l’assistenza al suicidio. Tutto questo più per scelte etiche dei singoli membri che per motivi giuridici. Anche per questi motivi sarebbe importante avere una legge e non una sentenza a disciplinare la procedura, prevedendo per esempio dei limiti di tempo entro cui il comitato etico deve rispondere. Occorre capire che i casi umani di cui stiamo parlando sono casi drammatici, in cui è necessario agire con una certa rapidità. Dunque è un bene che ci sia stata la sentenza del 2019, ma non basta».
la telefonata
di Redazione
Alla giornalista è stato permesso di chiamare i familiari: al momento non ha ancora ricevuto il pacco con beni di prima necessità consegnato sabato dall’ambasciata alle autorità del carcere iraniano