l'editoriale
lunedì 13 Gennaio, 2025
di Simone Casalini
Quella sul terzo mandato dei governatori – e prima ancora dei sindaci – rappresenta l’acme dello scontro tra Lega e Fratelli d’Italia. Ed è intuibile la motivazione: investe l’assetto dei poteri sul territorio dove ogni attore del centrodestra ha la sua roccaforte di consenso e dove la Lega, a nord, conserva la sua ragione d’essere che la suggestione di essere partito nazional-nazionalista o di estrema destra non ha. Con il no al terzo mandato il partito della premier Meloni taglia la testa – ora o in prospettiva – a tutti i governatori leghisti del nord: Luca Zaia (Veneto), Attilio Fontana (Lombardia), Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia) e Maurizio Fugatti (Trentino). E si candida a sostituirli e ad assorbirne l’elettorato. Che, a parte una componente ideologica o romantica, è molto più disposto alla mobilità rispetto al passato, soprattutto se muoversi significa ricalcare le orme del carisma e del successo.
L’apertura del fronte trentino – dopo quello veneto e friulano – con le parole del presidente Fugatti al T Quotidiano e il ricorso del governo (non firmato dalla Lega) contro il terzo mandato di De Luca in Campania hanno certificato il disallineamento in maggioranza e che la competizione è aperta. Cruda e violenta. Qui si affacciano anche due culture politiche antitetiche: quella postmissina che rimane, nel nucleo essenziale della classe dirigente, centralista e nazionale; quella leghista ed ex bossiana che si dibatte tra la radice regionalista e federalista – tanto che anche nel partito è ridecollato il dibattito sull’identità – e quella radicale e nazionalista, che ha portato la Lega al 34,26% nelle elezioni europee del 2019. Una contraddizione non semplice da incarnare.
In fin dei conti, è anche il duello tra due leadership che sono in traiettorie molto differenti della loro storia. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, veleggia nel consenso, interno ed esterno, costruito soprattutto nel contesto internazionale (accresciuto dalla liberazione di Cecilia Sala) e in una capacità di dialogo molto trasversale (da Biden a Trump, da Von der Leyen a Orbàn). Appare persino «contenuta» rispetto ai suoi omologhi di destra – che in parte ha ceduto come interlocutori a Salvini – senza rinunciare a quelle piccole e grandi correzioni istituzionali e sistemiche che cambieranno il senso della democrazia liberale e italiana. La sua è una leadership più simile a quelle del passato, che non evapora perché non è fondata solo sulla comunicazione. E del resto viene da lontano, ben oltre i due mandati. Il vicepremier Matteo Salvini ha già giocato le sue fiches al tavolo verde del governo con il Movimento 5 stelle e da allora la sua azione è in flessione, rivolta a conservare il consenso per non far entrare in crisi la sua leadership e il partito. Anche la rincorsa in Europa all’estrema destra, cercando un accreditamento che spinga fuori strada FdI, non sta pagando più di tanto perché l’elettorato è rimasto nel campo originale. Da qui anche l’ambiguità identitaria.
Potenzialmente è un conflitto esplosivo perché la Lega non può cedere i suoi accampamenti storici né rischiare di essere fagocitata – risucchiata a destra da FdI e dalla leadership di Meloni e al centro da Forza Italia – terminando ai margini. E quindi chi meglio dei governatori può sventare l’angolo del ring? La questione politica ha persino ombreggiato quella giuridica perché ne è solo una filiazione. Il governo può pretendere, con la normativa vigente, di allineare tutte le leggi elettorali regionali? Il contenzioso che seguirà lo chiarirà. In Trentino la risposta sembra no perché con la riforma del 2001 la potestà in materia e sulla forma di governo è stata passata alle Autonomie. Ma, anche in questo caso, se ci fosse un’estensione della legge verso il terzo mandato ne nascerebbe probabilmente un groviglio legale con rimbalzi ai vari livelli.
Accanto allo scenario nazionale ce n’è uno più locale. La Lega ha mantenuto il primato nella coalizione di centrodestra alle Provinciali del 2023 e non lo vuole cedere. La figura di Fugatti è quella che comunque, ad oggi, offre garanzie rispetto alle dinamiche di prospettiva. Ma la sua maggioranza non è quella della legislatura 2018-23. Il passaggio per un’espressione positiva di un voto d’Aula è esile – non solo per la contrarietà manifesta di Fratelli d’Italia – è comunque difficilmente slegabile da una revisione più complessiva dell’impianto elettorale e della forma di governo dove occorre evitare che il punto di caduta finale sia un ircocervo istituzionale. La partita è aperta e rischia di condizionare il proseguo di legislatura. Anche in termini di alleanze.
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