L'Intervista
venerdì 4 Novembre, 2022
di Stefano Frigo
Se parli dell’Aquila Basket il primo giocatore a venirti in mente sarà Toto Forray. E non potrebbe essere altrimenti. Il play di Buenos Aires veste la canotta bianconera dal febbraio 2011, ha difeso i colori del club del capoluogo in 516 occasioni, 454 delle quali consecutivamente senza mai doversi fermare per un infortunio. Insieme alla Trento cestistica ha scalato le gerarchie della pallacanestro nazionale ed europea passando dalla terza serie a due finali scudetto e ad una semifinale di Eurocup. Dietro al capitano, che i tifosi sono abituati vedere sul parquet, c’è ovviamente un mondo di cui molto raramente il diretto interessato ha parlato.
Forray, qual è il primo flash che le si accende se le pronuncio la parola “Trento”?
«Quando ero a Jesolo, credo sia stato nel 2007, dovevamo giocare alla Blm Group Arena, da avversari ovviamente. Beh, l’autista del nostro pullman non era riuscito a trovare la strada per il palazzetto e dopo aver tirato giù una stanga facendo manovra in tangenziale ci aveva lasciato all’altezza del supermercato Poli Regina di via Fermi. Arrivammo a piedi mezz’ora prima della palla a due. Da bianconero, invece, ricordo quando arrivai in città, un lunedì sera, in stazione e ad aspettarmi trovai Michael Robinson che mi portò subito a cena».
Fino a qualche giorno prima vestiva la canotta di Forlì in una categoria superiore. Chi la convinse ad accettare la proposta?
«A Forlì mi tagliarono dopo due anni e mezzo, con il senno di poi posso dire che è stato il momento più difficile della mia carriera soprattutto perché avevo dato il massimo ottenendo buoni risultati. Fu Salvatore Trainotti a cercarmi, firmai praticamente al volo prima ancora di entrare nei dettagli. Come si dice? Quando si chiude una porta si apre un portone? Diciamo che sono un esempio concreto della validità del proverbio».
A Forlì oltre a crescere come giocatore ha incontrato Alessandra che è poi diventata sua moglie e la mamma di Samuel, sei anni appena compiuti, e Celeste nata nel 2018.
«Esatto, la mia metà. Mi ha raggiunto a Trento alla fine del 2011, forse per lei è stato più difficile ambientarsi perché inizialmente non aveva un lavoro, poi ha trovato impiego come insegnante di danza e tutto è diventato più semplice».
In cosa l’ha cambiata diventare padre?
«Dal momento stesso in cui è arrivato Samuel tutto il resto è passato in secondo piano, ovviamente lo stesso discorso vale per Celeste. Capisci che le tue priorità sono loro, che il tempo quando sei al loro fianco vola e che nulla è paragonabile ai sorrisi che ti regalano. Questo non significa cambiare radicalmente il proprio modo di vivere ma dare il via ad una riorganizzazione direi fisiologica».
A giugno è tornato dopo tre anni in Argentina dove ha potuto riabbracciare famiglia e amici. Come ha vissuto questo lungo distaccato forzato?
«Proprio poter contare su una moglie straordinaria e due figli meravigliosi ha reso il tutto non troppo complicato. Sapere poi che non dipendeva certo da una mia scelta ma dalla pandemia di Covid ha alleggerito la situazione, non sto dicendo che non mi sono mancati i miei cari. Anzi. Per la prima volta proprio a giugno ho sentito di non aver sprecato nemmeno un secondo durante la mia permanenza a Buenos Aires, è stato tutto più emozionante e forte del solito».
Che Paese ha ritrovato?
«Non vivendoci fatico ad essere preciso. E’ comunque sempre una realtà border line, alti e bassi la fanno da padrone praticamente in tutti gli aspetti della quotidianità e oramai la gente si è abituata. Ovviamente io il paragone lo faccio con l’Europa e con l’Italia, ci sono altri posti nel mondo dove si vive molto peggio. In ogni caso le prospettive di vita per me e la mia famiglia sono qui».
E’ decollato la prima volta dall’Argentina a 17 anni per raggiungere Messina. Non dev’essere stato affatto semplice.
«Per rispondere a questa domanda è necessario descrivere il contesto generale in cui vivevo. Vent’anni fa da noi era “normale” lasciare la famiglia terminato il percorso di studi superiori. Io avevo la possibilità di andare a giocare in terza serie a 500 km da Buenos Aires o a 13 mila km di distanza in Sicilia. Sinceramente per me non ha fatto molta differenza, inoltre sapevo che dal punto di vista professionale l’Italia avrebbe potuto offrirmi di più».
Tornando alla realtà Aquila, c’è una persona alla quale si sente particolarmente legato?
«Devo fare due nomi: Salvatore Trainotti e Maurizio Buscaglia. Hanno rappresentato due riferimenti assoluti per me. Grazie a loro ho avuto la possibilità di mettermi in mostra a certi livelli, certo poi non mi sono lasciato sfuggire le opportunità ma general manager e coach me le hanno date. Questo non lo dimenticherò mai. So bene che ogni volta che facevamo un salto di categoria non tutti erano convinti che io avessi le qualità per reggere il confronto e proprio lo scetticismo generale mi ha dato ulteriori motivazioni».
Quando ha capito che a Trento avrebbe potuto raggiungere il gotha del basket nazionale ed europeo?
«Diciamo che mi sono reso conto sino in fondo delle potenzialità del club il primo anno di A2 quando abbiamo raggiunto i play off da ottavi superando Barcellona al primo turno per poi essere eliminati da Brescia. Qualche mese prima ospitammo la fase finale della Coppa Italia e il palazzetto cominciò a riempirsi per non svuotarsi mai più».
Il suo contratto con l’Aquila scadrà nel 2024 quando avrà 38 anni. Dove si vede quando darà l’addio al basket giocato?
«Sinceramente ci penso poco perché sono focalizzato sul campo. E’ quasi superfluo dire che mi sento legato a doppio filo a questo club e sapere che i tifosi mi identificano con i valori stessi della società mi riempie di orgoglio e mi fa capire che ho fatto benissimo a rimanere qui così a lungo. Vorrei continuare nel mondo della pallacanestro ma non ho ancora chiaro con che ruolo»
l'intervista
di Davide Orsato
L’analisi del giornalista che ha di recente pubblicato un manuale per spin doctors dal titolo «Non difenderti, attacca» e contiene 50 regole per una comunicazione politica (imprevedibile e quindi efficace)