il racconto
sabato 11 Maggio, 2024
di Tommaso di Giannantonio
«La Fondazione è nata perché Michele non doveva morire in quel modo. Non volevamo che il suo ricordo fosse relegato a un momento del Giro d’Italia. Abbiamo voluto trasformarlo in un progetto sulla sicurezza sulle strade. Oltre a un grande dolore, Michele ci ha lasciato la sua energia». Michele Scarponi, vincitore del Giro d’Italia nel 2011, ha perso la vita il 22 aprile 2017 mentre si allenava per le strade di Filottrano (Ancona), la sua terra d’origine: travolto da un furgone che non si era fermato allo stop. Da quel giorno il fratello Marco ha iniziato a girare per tutta l’Italia, andando anche nelle scuole, per diffondere la cultura del rispetto delle regole e dell’altro sulle strade. Ieri, sempre in qualità di segretario generale della Fondazione Michele Scarponi, è stato prima in una scuola media e poi, in serata, all’auditorium Palazzo Panni di Arco.
A un giorno dalla morte di Matteo Lorenzi… Cosa ha provato leggendo questa tragica notizia?
«È un dramma tremendo. Matteo aveva solo 17 anni, sognava di fare il Giro d’Italia, ma un uomo alla guida di un furgone ha spezzato la sua vita, com’è successo a Michele. Non ci sono parole. Noi stiamo facendo di tutto per aumentare l’attenzione sulla strage dei ciclisti, e anche dei pedoni, di tutte le persone in strada. Ma il Paese fatica a fare cambiamenti strutturali. Stiamo dialogando con il ministero per cambiare il codice della strada. Ad esempio, per quanto riguarda l’obbligo di mantenere una distanza di un metro e mezzo quando si sorpassa una bici, c’è la dicitura “ove possibile”. Una norma inapplicabile: abbiamo chiesto di eliminare questa dicitura».
Qual è il messaggio che la Fondazione porta in giro per l’Italia?
«Nel Giro d’Italia del 2016, dopo aver scalato per primo il Colle dell’Agnello, Michele si fermò e mise il piede a terra per aspettare Nibali e condurlo alla vittoria di quel Giro. Ecco, noi cerchiamo di declinare questo messaggio sulle strade».
Chi era Michele?
«Michele, oltre ad essere un grande ciclista, era il padre di due bimbi. In strada non muoiono i ciclisti, ma muoiono le persone. Michele era un grandissimo atleta, capace di vincere, di perdere, di essere un uomo gruppo. Era un custode del ciclismo antico e moderno, che stava in mezzo ai tifosi. E sapeva portare allegria: ci manca parecchio».
Se n’è andato sulle «sue» strade.
«Era appena tornato dal Tour of the Alps, che lo ricordano ogni anno. Aveva appena fatto la sua ultima vittoria davanti ai suoi bambini, che lo guardavano in televisione».
L’ex campione trentino Maurizio Fondriest ha denunciato «l’incoscienza» al volante (il T di ieri).
«Chi guida un’auto, un furgone o un camion non si rende conto che sta conducendo un’arma. Attraverso l’automobile abbiamo ucciso migliaia di persone. Non siamo uguali sulle strade. Il ciclista non è uguale a un automobilista o a un camionista. Se un automobilista sbaglia, come ha sbagliato l’uomo che ha ucciso Michele, uccide appunto, arreca un danno enorme. I ciclisti diventano invisibili perché la cultura della strada appartiene solo alla macchina».
Siamo all’anno zero?
«Non siamo all’anno zero, ma in Europa, tra i maggiori Paesi, l’Italia è al fanalino di coda. Significa che non stiamo facendo nulla per salvare vite umane».
Su cosa bisogna puntare?
«Bisogna investire di più in controlli, comunicazione e infrastrutture. Bisogna cominciare a togliere spazio a chi ne ha troppo e incentivare l’utilizzo di mezzi pubblici».
Le ciclabili sono la chiave di volta?
«La chiave di volta è cambiare la cultura della guida delle automobili. Le ciclabili non possono arrivare ovunque, ma possiamo condividere la strada».
Per donare alla Fondazione Michele Scarponi il 5×1000 della dichiarazione dei redditi-CODICE FISCALE: 93154670421.