Il racconto
venerdì 5 Maggio, 2023
di Sergio Zanella
Trenta giorni sono passati da quella notte che non sarà mai dimenticata, trenta giorni senza Andrea Papi. Caldes è un paese che prova silenziosamente a ripartire dopo quel 5 aprile, una data che però ha fatto da spartiacque, segnando un prima e un dopo. A ricordarlo ci sono i cartelloni e gli striscioni di cui il paese è tappezzato. Giri lo sguardo e da decine di balconi spunta un «Giustizia per Andrea». Uno slogan non certo banale, perché pieno di speranza in quelle istituzioni a cui spetta il compito di tributare una giusta giustizia – scusate il gioco di parole – per la morte di un ragazzo che non ha colpe.
A rimarcare questo concetto è, ancora una volta, il padre Carlo, che ci apre la porta di casa a pochi metri dal camposanto dove Andrea riposa. Un percorso che la famiglia Papi percorre più volte al giorno e che, molto spesso, porta mamma Franca, Carlo e la sorella Laura a incrociare il loro cammino con persone venute da ogni dove a salutare un ragazzo che poteva essere il figlio e il fratello di tutti. «Proprio questa mattina abbiamo incontrato a pregare sulla tomba di Andrea tre persone giunte a Caldes direttamente della Val d’Ultimo – spiega Carlo -. È incredibile come questa tragedia abbia unito la gente di montagna. In migliaia, pur non conoscendoci di persona, hanno voluto in ogni maniera dimostrare il loro cordoglio, perché questa è una tragedia di tutti. Ogni giorno nella buca delle lettere ci ritroviamo decine di messaggi: bambini, adulti, italiani, stranieri, addirittura del presidente della Repubblica Mattarella. In questa situazione sono momenti che ci regalano un sorriso: l’altro giorno una signora ci ha inviato un pacchettino di fiammiferi per accendere una candela in memoria di Andrea. Di certo in questa battaglia per ottenere giustizia non ci sentiamo soli. Anzi, colgo l’occasione per ringraziare ancora una volta tutti coloro che, armati di una semplice torcia, quella notte hanno affrontato la montagna per cercare Andrea. Hanno condiviso con noi la speranza di trovarlo vivo e ci hanno supportato nel momento in cui si è fatta largo la tragedia».
Nelle parole di Carlo, uomo di pianura trapiantato in montagna, c’è il coraggio di un padre che è veramente pronto a tutto per dare dignità a suo figlio. Un concetto sottolineato già durante il funerale di Andrea, un ultimo saluto in cui Carlo aveva chiesto a politici e tecnici di togliersi la corona e di chiedere perdono per quanto successo. «Da quel giorno le scuse non sono mai arrivate. E questo mi crea rabbia. Sembra che ci si nasconda dietro lo slogan del “tutti responsabili e nessuno colpevole” ma non è possibile che un progetto gestito da un ente pubblico sfugga di mano in questa maniera. Si è rimasti a guardare per troppo tempo e si è atteso che un martire morisse per dimostrare che le cose dovevano cambiare. Andrea è stato colpevole solamente di essersi addentrato nel suo bosco, che era il nostro, del territorio di Caldes, per una passeggiata settimanale. Lo faceva spesso e lo facciamo tutti. Lo chiamano runner, ma Andrea era un ragazzo normale che nella natura cercava pace e tranquillità. Ho fiducia nelle istituzioni e non voglio certo addentrarmi nei già troppo accesi discorsi sulla sorte dell’orso. Non sono un tecnico, queste scelte le lascio a loro. Tuttavia mi crea rabbia sentire che il progetto Life Ursus sia definito da più parti come un successo: si sapeva che prima o poi la tragedia sarebbe capitata e ora che Andrea non c’è più coloro che si vantavano della crescita enorme della popolazione degli orsi non sanno nemmeno chiedere scusa. La morte di Andrea è solo la punta dell’iceberg di un progetto che è divenuto problematico. Andrea non è stato vittima di una tragedia della montagna, è martire di un’iniziativa pubblica».
A casa Papi Andrea è ovunque. Si fatica a parlare di lui al passato. A tenerlo vivo è soprattutto la fiducia nelle istituzioni in cui papà Carlo confida. «Io e la mia famiglia andremo fino in fondo a questa vicenda, perché siamo in un paese civile e pertanto ritengo che qui, In Italia, questo fatto sia inaccettabile. La morte di Andrea è un fatto da preistoria. Attorno a noi si è stretta una comunità: sentiamo che il Trentino ci è vicino, lotta con noi e anche le centinaia di adesioni al comitato da poco nato lo testimoniano. Abbiamo informatici, giornalisti, contabili, avvocati, professori universitari, tecnici del settore e tanta gente comune che porteranno gratuitamente il loro sapere per aiutarci nell’andare fino in fondo, costi quel che costi. Per noi Andrea è ancora vivo, gli vogliamo bene: non vogliamo vendetta, vogliamo giustizia».
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