La sentenza

sabato 29 Aprile, 2023

Il Tar riconosce il «mobbing» subito in carcere da un’agente

di

La causa di lavoro aveva avuto un esito contrario, necessario un nuovo parere del Comitato di verifica
Carcere Spini di Gardolo

Agente di polizia penitenziaria, trasferita da un altro carcere a quello di Trento, era stata presa di mira dalle colleghe, costretta a subire a suo dire vessazioni, «calpestata nella propria dignità» racconta, «sminuita in quello che dicevo, con insubordinazione consentita dai superiori». Tanto che ne aveva risentito nella salute. Dichiarata, dopo la verifica della commissione medica, inidonea al servizio, smessa la divisa, la donna è stata inquadrata nei ruoli civili e poi dispensata dal servizio. Ma l’ex agente, assistita dall’avvocato Maria Cristina Osele, ha voluto far valere le sue ragioni e la trafila fatta di ricorsi e di istanze, per lei non è ancora finita. Ma almeno ora è arrivata la sentenza del Tar di Trento che ha riconosciuto come abbia subito «mobbing» sul luogo di lavoro, tanto che i giudici hanno annullato il rigetto al riconoscimento della causa di servizio «per l’infermità».

Tutto da rifare insomma. Il tribunale ha disposto che l’amministrazione debba «ripronunciarsi sull’istanza» e «chiedere un nuovo parere al Cvcs», il Comitato di verifica per le cause di servizio (Cvcs), il quale dovrà valutare i fatti esposti dall’ex agente, la sua «copiosa documentazione» e quella della direzione. Nuovo parere perché il Comitato che fa capo al Ministero dell’Economia e delle Finanza si era già espresso, sostenendo che «l’infermità non può riconoscersi dipendente da fatti di servizio». Senza per questo fare «alcun cenno esplicito e concreto riguardo il contesto lavorativo e neppure della dispensa dal servizio per la diagnosi di disturbo depressivo, patologia che la Commissione medica di servizio di Trento ha ritenuto derivare da avversità nell’ambiente di lavoro».

Per il Tar, che aveva già annullato il provvedimento di dispensa dal servizio, il Cvcs invece «non ha tenuto conto di tutte le circostanze che hanno caratterizzato in forma peculiare l’attività lavorativa della ricorrente», in particolare «il carattere in tesi vessatorio e persecutorio di taluni comportamenti di colleghi nei confronti della stessa». I giudici lo scrivono: «Il servizio istituzionale svolto dalla ricorrente, atteso l’ambiente e le ben particolari vicende in cui è stata coinvolta, risulta eccezionalmente connotato da profili di gravità tali da poter rilevare nel giudizio finale del Cvcs». Si tratta di «atti e accadimenti che effettivamente pare difficile ricondurre all’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro come normali conflitti interpersonali causati da antipatia, sfiducia o scarsa stima professionale». E, quel che è peggio, «i comportamenti in questione, tra l’altro, paiono essere stati tollerati dalla cosiddetta catena di comando o, quantomeno, derivare da una non ottimale organizzazione del servizio da parte del datore di lavoro». Tanto che i giudici rilevano «la responsabilità di natura contrattuale del datore di lavoro», come questo sia «tenuto a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale» del dipendente.

«In ogni caso – insiste il Tar – anche tali comportanti avrebbero meritato di essere indagati e valutati dal Cvcs» per «stabilirne l’idoneità a configurarsi, se del caso, quale causa o concausa della patologia lamentata dalla ricorrente» per il riconoscimento della causa di servizio e del relativo indennizzo (quando il Ministero si era attivato per il recupero, nei confronti della donna, di oltre 26 mila euro di stipendi). Lo stesso tribunale ha bacchettato l’Amministrazione anche per il non rispetto dei termini e l’estrema lunghezza del procedimento per il riconoscimento della causa di servizio, e per il mancato preavviso di rigetto che avrebbe consentito invece alla donna di presentare osservazioni. «Ero sicura di essere nel giusto e per questo mi sono battuta. Se necessario continuerò a farlo» sostiene lei.