La Storia
giovedì 12 Gennaio, 2023
di Sara Alouani
Dai lidi sabbiosi di Dakar a Caen, in Francai, dalla Sardegna fino al campetto di Cristo Re. Un’odissea di saliscendi e di passaggi nell’ombra è quella che ha vissuto Macumba Sambe, promessa del calcio finita in clandestinità, a cui il Cristo Re (Prima categoria) ha affidato la fascia da capitano. Una storia a lieto fine, anticipata da delusioni e infortuni, e sublimata da famiglie (trentine) trovate che lo hanno trasformato da naufrago a cittadino dopo essere passato anche per il caporalato nei campi.
Macumba nasce a Dakar, capitale del Senegal, da un amore proibito tra l’ex politico Mohamed Sambe, esponente del partito democratico senegalese, e Mariam, casalinga, alla quale era stata vietata la relazione con l’uomo che amava follemente.
«La famiglia di mia madre si è opposta con le unghie e con i denti all’amore tra i miei genitori, poiché avevano già deciso con chi si sarebbe dovuta sposare. In Senegal, nelle famiglie musulmane, spesso si ricorre ancora oggi alla pratica del matrimonio combinato ma mia madre si è ribellata in tutti i modi ai dettami ed è rimasta incinta. Con la mia nascita nel 1991 la situazione familiare si è aggravata e a mia madre è stato imposto di sposare un uomo vent’anni più vecchio di lei. Mio padre andò a Parigi a studiare, allontanato con la forza dalla sua famiglia, ed io rimasi a vivere con il marito di mia madre e i tre fratellastri che nacquero dalla loro unione».
Quindi lei è un figlio illegittimo per l’Islam?
«Sì. Infatti, non ho potuto ereditare nulla dopo la scomparsa di mio padre. Era molto ricco, ha lasciato ville e denaro ai suoi figli e a sua moglie. Quest’ultima si è impuntata sul mio non essere un figlio legittimo per la nostra religione e ha fatto in modo che non mi arrivasse nulla. A dire il vero avrei preferito ricevere qualcosa da mio padre quando era in vita, ad ogni modo dei suoi soldi non mi è mai importato granché; non ho mai avuto un legame forte con lui. Lo vidi l’ultima volta nel 2021 quando andai a recuperare le mie due figlie che all’epoca vivevano in Senegal con mia moglie. È morto per complicanze dovute al Covid poco dopo. Quel giorno lo abbracciai forte prima di ripartire, come se sapessi che non l’avrei più rivisto. Non l’avevo mai abbracciato prima di allora».
Con il calcio è andata meglio, invece. Quando ha iniziato e quale è stato il suo percorso?
«Ho iniziato a giocare a 5 anni ed ho militato nelle giovanili dell’Association Sportive et Culturelle Hlm a Dakar, la squadra principale della capitale che gioca nella League 1 senegalese. A 17 anni ero tra i migliori giocatori del campionato e mi è stata data la possibilità di fare un provino come professionista in Francia allo Stade Malherbe Caen. Mi ricordo quel giorno come se fosse ieri: era gennaio ed avevo lasciato i 33 gradi del Senegal per ritrovarmi a correre al freddo sotto la grandine. Tutti i miei compagni si ritirarono, io, sapendo di aver lasciato mia madre in povertà, ho voluto provarci a tutti i costi».
Dal tono s’intuisce che non è andata molto bene.
«È andata malissimo. Non riuscivo a correre, lo sbalzo termico mi aveva destabilizzato e il campo era completamente ghiacciato. Praticamente, dovevo camminare per non rischiare di cadere ad ogni passo che facevo. Insomma, non è stata una bella prestazione. Inoltre, le scarpe che portavo non erano adatte a quel tipo di terreno. Nel frattempo, però, grazie al mio procuratore, avevo ricevuto delle altre proposte proprio in Italia, così sono volato in Sardegna dove il Tavolara dopo un provino, mi ha assoldato come attaccante esterno. Avevamo tempistiche molto strette per firmare l’accordo, poiché il visto che mi era stato concesso dall’ambasciata senegalese per gli stati Schengen aveva validità di un mese. Sfortuna volle che, mentre la squadra di Olbia stava preparando la documentazione per assumermi come calciatore, mi scadette. A questo punto ero diventato un clandestino e da quel momento in poi non avrei più potuto né giocare a calcio né lavorare. Dovevo rientrare in Senegal».
Cosa ha deciso di fare?
«La possibilità di rientrare a casa non mi è nemmeno passata per l’anticamera del cervello. Ormai ero in Italia e ci sono rimasto. Non volevo deludere mia madre, non volevo tornare indietro. Tanti ragazzi stranieri fanno come me, piuttosto che perdere la faccia rimangono in clandestinità. Mi sono spostato a Oderzo, in provincia di Treviso, e ho cominciato a lavorare nei campi con altre persone nella mia stessa situazione. Vivevamo insieme in posti letto che pagavamo singolarmente e ogni giorno andavamo di nascosto in ditta a raccogliere pesche, pere, uva, mele; quello che capitava. Venivo pagato 4 euro l’ora. Per 5 anni ho vissuto come uno zombie senza poter fare nulla, nemmeno iscrivermi all’università ma non ho mai abbandonato il pallone: andavo a fare provini scarrozzato da Walter Marcelli, un allenatore che credeva molto in me e che mi ha proposto a tante squadre, però, nessuna ha mai osato reclutarmi a causa della mia clandestinità. Il sabato giocavo con amici ed è proprio qui che un signore, colpito dalle mie abilità, mi fece contattare dall’allora direttore del Trento calcio. Prima il cellulare squillava solo per andare a pulire stalle e aiutare in campagna; questa volta, invece, la chiamata è stata molto diversa».
Possiamo dire che il calcio l’abbia sottratta alla clandestinità?
«È stato proprio così. A inizio 2012 sono arrivato a Trento e dopo aver confermato in un provino le mie doti calcistiche, la società mi ha offerto un contratto di lavoro nell’azienda automobilistica del presidente per poter richiedere un permesso di soggiorno lavorativo e conseguentemente avermi in squadra regolarmente. L’anno del mio esordio abbiamo vinto il campionato passando in serie D purtroppo però non sono riuscito giocare la finale: mi sono rotto il crociato».
Si ricorda quel momento?
«Come dimenticarlo? Durante un’amichevole contro il Südtirol in casa, allo stadio Briamasco: parto in velocità su una palla filtrante dell’ex serie A Claudio Ferrarese, il portiere esce in ritardo facendo un’entrata devastante sulle mie gambe. Sono svenuto dal dolore. Quel giorno mi è crollato il mondo addosso. Dopo tanti sacrifici vedevo svanire il mio sogno, la mia carriera calcistica era ormai compromessa ed ero solo, senza famiglia, rilegato a letto in una stanza d’hotel messa a disposizione dalla società. Non potevo nemmeno usare la macchina, perché non riuscivo a piegare la gamba per salirci. Ero caduto in un buco nero e pensavo al peggio, anche di farla finita».
Come ha fatto a riprendersi?
«Grazie al mio compagno di squadra Alessandro Bertolon, che, avendo il padre francese, era l’unico con cui riuscivo a comunicare facilmente. Durante la stagione avevamo legato molto e io gli preparavo il borsone per l’allenamento, perché non arrivava mai a passare da casa dopo scuola. È stata la sua famiglia a proporre alla squadra di “adottarmi” e si sono presi cura di me durante tutta la mia convalescenza. Anna Rosa, che io chiamo mamma adottiva, mi disse: “Dove si mangia in tre si mangia anche in quattro”. Mi hanno anche aiutato a trovare il mio primo lavoro alla Scout di Trento e da lì ho poi ricominciato vivere. La mia prima figlia si chiama Mariam Anna. Il primo nome è quello della mia mamma biologica, il secondo è della mia mamma adottiva. Se non fosse stato per lei, forse, oggi non sarei qui a raccontare la mia storia».
Come finisce la sua storia?
«Ho cominciato a lavorare nell’attesa di recuperare il crociato, chiaramente, il mio valore come calciatore era sceso, quindi ho dovuto accontentarmi di trovare spazio in campionati di Eccellenza e così sono partito con i primi contratti prima all’US Lavis, poi all’Asd Porfido Albiano. Oggi lavoro presso Iam ascensori come impiegato e sono capitano del G.S. Cristo Re. Le soddisfazioni nella mia vita sono arrivate comunque, anche se non con il calcio come speravo. Sono riuscito a costruire casa a mia madre in Senegal, che era una delle priorità, e ho sostenuto economicamente l’istruzione dei miei fratellastri che ora sono uomini adulti e lavorano a Dakar. Soprattutto, sono padre di tre meravigliosi figli, uno dei quali è nato proprio qualche giorno fa. Tutto questo è stato possibile anche grazie alle persone che mi sono state accanto come la famiglia Dal Rì che si è attivata per supportarmi in tutti questi anni».
Che cosa ci insegna con la sua esperienza?
«Più che altro insegno a me stesso. Ogni volta che sono giù di morale guardo indietro e capisco che sono caduto tante volte ma mi sono sempre rialzato con più forza. Anche nel momento più buio della mia vita, quando mi sono accorto che non sarei mai riuscito a realizzare non solo i miei sogni, ma anche quelli di mia madre e dei miei fratellastri, non ho perso la speranza».