L'intervista

giovedì 25 Luglio, 2024

Uno studio per scoprire nuove tecnologie per curare malattie genetiche: il lavoro di Anna Cereseto (Cibio)

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La ricerca rientra fra le 47 che si sono aggiudicate il finanziamento di un milione e duecentomila euro stanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca attraverso il bando del Fis, il Fondo italiano per la scienza, a cui hanno partecipato circa duemila proposte provenienti da tutto il Paese

Migliorare gli strumenti umani a disposizione per «correggere» il Dna degli esseri viventi e riuscire così a contrastare più efficacemente le malattie genetiche rare. È ciò in cui consiste il progetto «My Bet» guidato dalla docente di biologia molecolare del Dipartimento Cibio (Biologia computazionale, molecolare e integrata) dell’Università di Trento, Anna Cereseto. Una ricerca rientrata fra le quarantasette che si sono aggiudicate il finanziamento di un milione e duecentomila euro stanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca attraverso il bando del Fis, il Fondo italiano per la scienza, a cui hanno partecipato circa duemila proposte provenienti da tutto il Paese.
Professoressa Cereseto, quale obiettivo si pone il progetto My Bet?
«My Bet, che tradotto significa “la mia scommessa”, è in realtà un acronimo di Microbiome yielded biotechnological evolution-based terapies. Il progetto punta a ottimizzare e potenziare le tecniche di editing genomico, cioè quelle che ci permettono di raggiungere il Dna contenuto nelle cellule degli essere viventi e modificarlo».
Come funzionano queste tecniche?
«Si tratta di un campo di studi ancora molto agli inizi: solo nel 2012 le ricercatrici Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna hanno scoperto che attraverso il cosiddetto sistema Crispr-Cas9 era possibile tagliare o modificare parti di Dna dannose, una scoperta che è valsa a entrambe il premio Nobel per la chimica nel 2020. Fin dall’inizio all’interno del laboratorio del Cibio c’è stato grande entusiasmo per questa nuova tecnica e per le enormi possibilità che ha aperto: l’obiettivo di My Bet è quello di aumentarne l’efficienza in campo clinico per curare malattie genetiche, che sono causate da mutazioni del Dna anche di tipo ereditario e su cui l’industria farmaceutica non si interessa particolarmente perché sono patologie molto rare».
Quindi al momento si tratta di un sistema in qualche modo poco efficiente o da «correggere»?
«Diciamo che visto il pochissimo tempo passato dalla sua scoperta è sottoposto a diverse limitazioni, in particolare la molecola della proteina che agisce da “forbice” è particolarmente grande e difficile quindi da immettere all’interno di un organismo».
E con My Bet come intendete risolvere il problema?
«La proposta del nostro gruppo di ricerca al Ministero è stata quella di andare a cercare nuove tecnologie che possano facilitarne l’impiego, partendo all’idea che paradossalmente una fonte rilevante per trovare queste soluzioni possano essere i batteri, che utilizzano questa molecola per modificare il Dna dei virus che possono colpirli».
Come si svilupperà la ricerca?
«Il progetto avrà una durata di cinque anni e si articolerà in tre fasi. Nella prima, già avviata, ci avvarremo della collaborazione con un altro gruppo di ricerca del dipartimento che indaga sui batteri intestinali, il team di Metagenomica computazionale guidato da Nicola Segata: consultando la loro banca dati, andremo a cercare le tecnologie che possano semplificare questo trasferimento all’interno dell’organismo. Poi, siccome la molecola è di fonte batterica, sarà necessaria una fase di adattamento per farla funzionare nei mammiferi, che sarà quella che richiederà i tempi più lunghi. Utilizzeremo un approccio chiamato evoluzione diretta, cioè cercheremo di metterla sotto pressione evolutiva facendola sviluppare e ambientare all’interno di una cellula umana, ricreando quindi in vitro delle proteine che non sarebbero sviluppabili senza l’intervento umano».
E l’ultima fase?
«Sarà principalmente un test, andremo ad applicare la molecola evoluta per provare a intervenire su una malattia genetica grave e altamente letale soprattutto nella fascia d’età infantile, ovvero l’atrofia muscolare spinale».
Che tipo di malattia è?
«È una patologia che colpisce il sistema motorio e nervoso fino a complicare la respirazione. Abbiamo voluto sceglierla come “test” proprio perché riguarda il sistema nervoso, su cui è molto complicato intervenire per via delle difficoltà nel raggiungerlo. Un modo quindi per verificare subito l’efficacia del progetto e le nostre capacità: nel caso dovessimo riuscire a ottenere dei buoni risultati saremo pronti anche a proporre, adattare e sperimentare il sistema su altre malattie genetiche, come la fibrosi cistica».
Le risorse messe a disposizione dal Fis come verranno impiegate per la vostra ricerca?
«Anzitutto per formare il gruppo, reclutando quindi un ricercatore, dottorandi e post-doc. Il restante verrà poi speso nella parte più “concreta” di realizzazione, quindi in reagenti e materiale per il sequenziamento genetico».