Il libro
sabato 18 Marzo, 2023
di Carlo Martinelli
No, quando Emmanuel Carrère è uscito, nel luglio 2022, per l’ultima volta, dall’enorme scatola di legno bianco «fatta costruire appositamente» per ospitare il processo ai complici e all’unico sopravvissuto fra gli autori degli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015, no, non era lo stesso Emmanuel Carrére che vi era entrato, per la prima volta, l’8 settembre dell’anno prima.
E, lo sappia il lettore, chi si addentrerà nella lettura di V13, il libro (Adelphi, 268 pagine, 20 euro) che raccoglie i resoconti settimanali che Carrére ha dedicato a quel processo, per nove mesi — vissuti solo e soltanto per le lunghe ore passate nell’aula di tribunale — sì, chi leggerà non uscirà dall’ultima pagina così come vi era entrato alla prima. Certo, molti hanno letto — in Italia su «Repubblica», in Francia era l’«Obs» — quei reportage, quella Cronaca giudiziaria come recita il sottotitolo. Ma l’impatto del libro — che tra l’altro contiene molti passaggi inediti, è più lungo di un terzo rispetto a quanto uscito sui giornali — appare di tutt’altra portata, forse per confermare che Carrére, autore sovente indecifrabile, certamente magnetico, è appunto un grande scrittore prima che un ottimo giornalista, come pure è stato in questa e in altre occasioni.
Cambiato come? Come scrive a pagina 70, ad esempio: «Secondo un aforisma crudele, abbiamo sempre coraggio a sufficienza per le sofferenze altrui. È vero, e tuttavia anche tra le nostre file, quelle degli osservatori che dopotutto si limitano ad ascoltare e trascrivere, stiamo sempre peggio. Dormiamo sempre peggio. Abbiamo incubi, diventiamo irritabili. E una volta tornati a casa, sempre più spesso scoppiamo a piangere di punto in bianco (eppure, Dio sa se ho la lacrima facile)».
Sì, non si esce indenni da V13. Che sta per venerdì 13, quel venerdì 13 novembre 2015, il giorno degli attentati che, tra il Bataclan, lo Stade de France e i bistrot presi di mira, hanno causato centotrenta morti e oltre
trecentocinquanta feriti. Centrotrenta morti? No, ricorda Carrère, citando il padre di Guillame che era al Bataclan, quella sera. Una ragazza, sdraiata accanto a lui nella calca, mentre i terroristi sparavano, gli sussurra: «Andrà tutto bene…». Un attimo dopo era morta. Lui, Guillame, si salverà. Per impiccarsi, il 19 novembre dell’anno dopo, in una stanza d’ospedale. Ucciso da una sofferenza psichica devastante, che non lo ha mai lasciato da quella sera, dalla sera del Bataclan. «Grazie a quanti non lo dimenticano», scrive Carrère. Che scandisce il suo reportage (perché chiamarlo in altro modo? è il reportage da un processo che è già storia, purtroppo) in tre parti – Le vittime, Gli imputati, La Corte — e che lo scrive, chiaro: «Mai, nemmeno una volta, ho preso in considerazione l’eventualità di mollare. Mai ho avuto voglia di uscire dalla scatola. Sapevo, sapevamo che stavamo vivendo insieme qualcosa di completamente diverso da uno sfoggio di virtù a beneficio della Storia, da quell’happening giudiziario faraonico e inutile che all’inizio avevamo buoni motivi di paventare. Qualcosa di completamente diverso: un’esperienza unica di terrore, pietà, vicinanza, presenza».
Un’esperienza unica che ha affrontato con qualche rara citazione. Due, in particolare, aiutano ad attraversare queste pagine insanguinate. La prima è di Simone Weil: «Il male immaginario è romantico, romanzesco, vario; il male reale incolore, desertico, noioso. Il bene immaginario è noioso; il bene reale è sempre nuovo, meraviglioso, inebriante». Dice Carrère: «Si parla troppo, e con troppa compiacenza, del mistero del male. Essere disposti a morire per uccidere, essere disposti a morire per salvare: qual è il mistero più grande?». Poi, Truman Capote da A sangue freddo, titolo che con il V13 di Parigi ha molto a che spartire. In America c’era Bonnie che scuoteva la testa, mormorando: «Essere assassinati. Essere assassinati. No. No. Non c’è niente di peggio. Niente di peggio di questo. Niente».
Questo «niente di peggio» nel V13 si è ripetuto centotrenta volte nel giro di un paio d’ore. Questo è tornato a rivivere — e la parola sembra blasfema al cospetto di tanta morte — durante il processo. Carrère, seduto su una scomoda panca di legno per nove mesi ha preso appunti, ascoltando il resoconto di quelle «esperienze estreme di morte e di vita», le testimonianze atroci di chi ha perduto una persona cara o è scampato alla carneficina strisciando in mezzo ai cadaveri, i silenzi e i balbettii degli imputati, le parole dei magistrati e degli avvocati. Racconta come solo Carrère sa fare, scartando enfasi e patetismo, sempre cercando di cogliere l’umanità degli uni e degli altri (sconvolgente, ammirevole o abietta che fosse: il capitolo delle vittime occupa 63 pagine, quello degli imputati 113), ma anche, talvolta, la quasi insostenibile ironia dei discorsi («è stato bello», dirà qualcuno al termine del processo) e delle situazioni. Carrère tutto impasta, tutto riferisce: orrore e pietà, ferocia e fanatismo, follia e sofferenza.
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