l'intervista
martedì 7 Febbraio, 2023
di Stefania Santoni
«Abracadabra» è una parola magica. O meglio, è una formula magica che letteralmente significa «io creerò come parlo». Anche una leggenda narra che un giorno, mentre stava prendendo forma l’universo, le lettere dell’alfabeto si recarono dalla divinità per chiedere il potere della creazione. Da qui si deduce una cosa fondamentale: le parole creano la realtà. Le cose esistono nel momento in cui le diciamo, non il contrario. Sorge spontanea una domanda: se uno degli strumenti più potenti di cui disponiamo è il linguaggio, perché non utilizzarlo correttamente? A partire da questi interrogativi sul linguaggio e sul riverbero sociale che le parole hanno prende avvio la ricerca di una delle più note sociolinguiste del nostro Paese, Vera Gheno che arriverà a Trento per tre eventi. Martedì alle 17.30 alla libreria Erickson dialogherà con Dario Ianes su Le parole a scuola. Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo, mentre alle 20.30 interverrà all’auditorium S. Chiara al «Safer Internet Day 2023» sul tema Essere in rete. Mercoledì, dalle 14.00 alle 17.00, al liceo linguistico Sophie Scholl parteciperà invece alla conferenza Parole e idee. Come coltivare i pensieri e con quali parole raccontare il mondo. Con la moderazione della docente di linguistica generale dell’Università di Trento Patrizia Cordin, Gheno presenterà una relazione dal titolo Potere alle parole per incidere sul reale mentre Federico Laudisa parlerà di Il linguaggio scientifico: fenomeni, modelli, teorie.
Dottoressa Gheno, in che modo si è avvicinata al mondo delle parole e ha scelto la strada della socio-linguistica?
«In maniera naturale, direi. Papà mi leggeva gli albi di Asterix quando ancora non sapevo farlo da sola, e da allora è stata una cavalcata tra le parole (anche mio padre è un linguista). Direi che, più che scegliere la sociolinguistica, è stata lei a scegliere me. Tra tutte le materie linguistiche, è quella in cui mi sono più ritrovata, che sento più mia. In fondo, è una scusa per occuparmi delle persone (solo che ci arrivo tramite le loro stesse parole)».
In uno dei suoi saggi più noti, «Le ragioni del dubbio», lei spiega quanto mettere in dubbio ciò che pensiamo, le parole che utilizziamo, possa diventare una risorsa estremamente feconda, che ci permette di evolvere, contrariamente al pregiudizio negativo che la parola dubbio porta con sé.
«Lo stigma sulla parola “dubbio” sembra essersi dimenticato dell’ottimo e immortale insegnamento socratico del “sapere di non sapere”. Semplicemente, se non dubitiamo di ciò che sappiamo, se non ci rendiamo conto dei suoi limiti, se non abbiamo consapevolezza del perimetro entro il quale si trova il nostro sapere, non creiamo lo spazio per altra conoscenza. Ovviamente, l’eccesso di dubbio può diventare invalidante… occorre trovare sempre il giusto equilibrio tra dubbio assoluto e certezza assoluta».
Siamo ciò che diciamo: cosa cambia quando comprendiamo l’importanza dell’essere consapevoli delle parole che scegliamo di utilizzare?
«Per esperienza personale, ne guadagniamo in serenità, consapevolezza di sé e delle proprie relazioni, attitudine curiosa e non spaventata nei confronti del mondo. Dico “per esperienza personale”, perché tutto ciò di cui parlo è stato in primis verificato su me stessa. A me le parole hanno cambiato la vita, letteralmente, permettendomi di superare — o perlomeno di gestire — la mia tremenda ansia sociale».
In «Chiamami così», scrive: «La lingua, e la società, si cambiano da dentro e dal basso, a partire dai nostri costumi — linguistici e sociali — individuali». Ci spiega meglio quest’affermazione con qualche esempio?
«A volte, qualcosa si può decidere e imporre dall’alto. Ma in generale i grandi mutamenti sociali e linguistici richiedono che ogni persona sia parte del cambiamento. Talvolta è difficile riconoscere la rilevanza del ruolo del singolo in questi macroprocessi, ma di fatto quest’ultimo è molto importante. Solo da una moltitudine di micro cambiamenti può nascere quello grande, quello davvero approfondito, quello che ha conseguenze durature».
E a chi sostiene che «certe parole suonano male» — ad esempio certe professioni femminili, parole come «medica» e «avvocata» — che cosa direbbe?
«Che il fine ultimo della lingua dell’uso quotidiano non è l’eufonia, che peraltro è un dato relativamente soggettivo (una cosa che a te suona male magari a me suona benissimo). E che molte persone sottovalutano l’importanza di nominare le persone in modo da renderle socialmente più visibili. Usando i femminili professionali, abituiamo il nostro cervello al fatto che in determinate professioni o in certi ruoli apicali l’alternanza tra i generi è perfettamente naturale, e la presenza di altre soggettività rispetto a quelle maschili non è un’anomalia, bensì la normalità».
Il 7 marzo uscirà il suo nuovo libro «Parole d’altro genere» dedicato alle parole scritte dalle donne che però fanno parte del sommerso della nostra cultura. Cosa cambia in noi sapere che anche le donne hanno scritto, che esiste anche una letteratura delle donne, nonostante la nostra civiltà tenda a lasciarla ai margini?
«Io penso possa contribuire a comprendere che il punto di vista che abbiamo avuto fino a tempi recenti non è l’unico, ma solo uno dei tanti. L’impronta maschile sulla nostra società, sulla cultura e sulla lingua non è di per sé negativa; semplicemente, lo diventa se appare come l’unica esistente, o l’unica possibile».
Che cosa possiamo fare per praticare un linguaggio più inclusivo? E quali soluzioni e vie suggerisce di seguire (sia nel parlato che nello scritto)?
«Fare più attenzione al sentire delle altre persone. Fermarsi ad ascoltarle, a raccogliere le loro obiezioni, osservazioni e perplessità. Non si nasce “imparati”, ma si può mantenere un’attitudine aperta, di curiosità, nei confronti di ciò che si ha la consapevolezza di non sapere».
Un’ultima domanda. Che cosa racconterà ai ragazzi e alle ragazze del liceo linguistico Sophie Scholl di Trento?
«Quello che sono, quello che penso di essere, quello che vorrei essere, tanto per parafrasare Giorgio Raimondo Cardona. E poi, risponderò alle loro domande, che spero arriveranno copiose».