L'INTERVISTA

giovedì 2 Gennaio, 2025

Vincenzo Della Sala: «Sempre più persone sono disposte a sacrificare la libertà per garantire la propria sicurezza»

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Il docente Unitn: «Abbiamo perso il senso profondo della politica, il suo scopo, che non è scontro ma ricerca di soluzioni ai problemi, mentre ora è un «gioco» di creazione dei problemi»

Tra le sfide che la democrazia è chiamata a sostenere in questi anni, la difficile convivenza tra sicurezza e libertà è probabilmente la più insidiosa. Tuttavia, la contrapposizione tra la tutela dei diritti e la garanzia della sicurezza delle persone è inesistente, frutto di un equivoco talvolta alimentato dagli stessi governi. Su questo tema incontriamo il professor Vincenzo Della Sala, docente di Scienza Politica, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Università di Trento.
Cosa significa la libertà oggi? Come è percepita dai giovani?
«Da alcuni anni, all’inizio dei miei corsi, chiedo ai miei studenti se sono disposti a rinunciare ad alcuni diritti per garantire la propria sicurezza. Nel tempo il numero di studenti che si dice disposto a sacrificare qualcosa della libertà per garantire la propria sicurezza, aumenta di anno in anno e ruota intorno al 20%. Sono giovani che vanno dai 21-22 anni ai 25 anni. È vero che è un gruppo non rappresentativo della società, ma è tuttavia un dato significativo».
Quando è iniziata questa tendenza?
«Ricordo che ho dovuto fare una lezione il 12 settembre 2001 in un corso in Canada, dove all’epoca insegnavo, in un’aula con 300 studenti spaventati, impauriti per quanto appena accaduto, e sono sicuro che, se avessi posto la domanda quel giorno, la risposta sarebbe stata certa, già allora. Negli ultimi anni si riflette l’incertezza degli scenari geopolitici e l’assenza di risposte adeguate: c’è la percezione che il costo di esprimere un’opinione diversa, controcorrente, sia troppo elevato, pur essendo la pressione verso la conformità diversa da sessant’anni fa».
Cosa ostacola la libertà personale?
«Viviamo in un periodo molto paradossale, nel senso che da una parte abbiamo meno ostacoli alla libertà ma allo stesso tempo ci sono tante incertezze dal punto di vista economico. È anche vero che negli ultimi trent’anni, particolarmente in Italia, non c’è stata quella crescita economica in grado di permettere la diffusione della ricchezza; negli anni ‘70 e ‘80 abbiamo accumulato un debito pubblico consistente che è un peso sull’economia e sulle generazioni future. L’altro aspetto della questione della libertà è che noi piano piano abbiamo accettato tutta una serie di vincoli sulla nostra privacy, abbiamo, ad esempio, accettato che le grandi piattaforme tecnologiche possano raccogliere i nostri dati e venderli e anche questa è una perdita di libertà, anche perché gli algoritmi sono utilizzati per indirizzare informazioni verso di noi e determinarne le scelte».
Il dilagare del populismo ci incatena alle nostre paure?
«Il populismo viaggia sull’onda delle paure, cerca di alimentarle: l’obiettivo è di minare la fiducia nelle istituzioni anche se esse, nel bene e nel male, negli ultimi 70-80 anni, almeno nel contesto europeo, hanno portato pace e prosperità. Il populismo per avere successo deve minare quella fiducia e il modo più facile è giocare sulle nostre paure: tutto va messo in discussione, anche le cose più evidenti e di conseguenza, ciò crea panico. Ad esempio, il livello dei reati è più o meno stabile, anzi è meno oggi rispetto ad anni fa, ma se non si crede neanche nei dati …»
Quanto è profonda, nei fatti, questa crisi di sicurezza e libertà che ha interessato gran parte delle liberaldemocrazie occidentali nell’ultimo ventennio?
«È la percezione che le cose non funzionano, alimentate appunto dal populismo ma anche dalla politica stessa; cioè, abbiamo perso il senso profondo della politica, il suo scopo, che non è scontro ma ricerca di soluzioni ai problemi, mentre ora è un “gioco” di creazione dei problemi. Se ritorniamo al periodo della prima Repubblica in Italia c’era il grande scontro tra Chiesa e comunismo, ma nei fatti i partiti dell’opposizione nella prima Repubblica avevano votato con il governo quasi il 90% delle leggi che sono state approvate dal Parlamento italiano. Ciò significa che sì c’era competizione tra i partiti, ma quando si dovevano risolvere i problemi la politica trovava l’accordo. Oggi la politica è uno spettacolo: c’è una crisi delle istituzioni, non soltanto quelle costituzionali, c’è una crisi della stampa, dell’informazione, c’è una crisi dell’istituzione come la scuola e l’università e così via… Dall’altra parte abbiamo una società che è abbastanza resiliente, nonostante il fatto che dal punto di vista della sfera pubblica non abbiamo sempre gli attori che si comportano in modo adeguato».
Quali risposte hanno fornito i regimi democratici?
«Ci sono differenze a livello europeo ma sta dilagando questo senso che siamo sotto assedio, non si sa da chi e da dove. Il dibattito sull’immigrazione non è un ragionamento ma un discorso da bar sport, dove i fatti e i numeri non contano: l’Unione europea ha quasi 450 milioni di persone e in molti paesi c’è un declino demografico; l’arrivo di 100.000 rifugiati non è neanche una goccia nel mare e allora perché tanta paura? Eppure, sappiamo, ad esempio, che mancano circa 50.000 ingegneri in Italia, reperibili in altri Paesi con una politica di immigrazione lungimirante. E invece no, si premia il mal di pancia a proprio danno. Una soluzione intelligente potrebbe essere quella di inviare funzionari di ambasciata sul campo e reclutare le persone con le competenze che necessitiamo».
Quali democrazie sono riuscite a salvaguardare sicurezza e libertà dalle minacce e dalle trasformazioni economiche e sociali?
«Le sfide sono diverse nel mondo; chiaramente dove funziona meglio lo Stato, in genere in quelli nordici, i sondaggi tendono a dimostrare che la fiducia nelle istituzioni è più elevata e quindi, ci sono maggiori anticorpi al populismo. Sicurezza e libertà non sono in antitesi ma abbiamo bisogno di uno stato che funziona, che dia delle risposte alle sfide del millennio».