l'intervista
mercoledì 20 Novembre, 2024
di Francesco Barana
Con le lenti del noir si possono osservare tratti d’Italia. Walter Veltroni, regista, scrittore, a lungo leader politico, lo fa da anni con consumata abilità narrativa attraverso le avventure del commissario Buonvino. Che si arricchiscono di un nuovo romanzo, il quinto della fortunata saga che ha venduto più di duecentomila copie: «Buonvino e il circo insanguinato» (Marsilio, 195 pagine), che Veltroni, 69 anni, presenta stasera, alle 19.30, al Museo Civico di Borgo Santa Caterina a Rovereto, ospite della libreria Arcadia.
L’ambientazione è sempre quella romana di Villa Borghese, ma in questo nuovo capitolo siamo sotto le feste di Natale. La quiete di Giovanni Buonvino – personaggio malinconico, ma divertente – viene turbata dall’arrivo del Circo Calaiacomo al Parco dei Daini. Durante il numero dei trapezisti, Manuelita, la giovane figlia del direttore di scena, cade e muore sul colpo dopo aver sbattuto contro l’unica parte dura della rete di protezione. Sembra un incidente, una tragica fatalità, ma Buonvino intuisce che forse non è così e indaga assieme alla sua squadra sgangherata, costituita perlopiù da poliziotti ex mobbizzati. Fino al coup de théâtre conclusivo, che in un certo modo riguarda tutti noi.
Il romanzo, dall’atmosfera felliniana (con espressi richiami al cinema e a Fellini stesso, passioni dell’autore e di Buonvino), è un ritratto introspettivo di personaggi incredibilmente umani, che prendono vita coi loro rancori, le rivalità, le infedeltà, i segreti e le solitudini che si annidano dietro la facciata bucolica e clownesca del circo. Si respira malinconia scorrendo le pagine e il finale dispiega una realtà desolante di invidie, risentimenti, finanche odio. Sentimenti che, secondo Veltroni, «sono di questo nostro tempo, caratterizzato da senso di solitudine e mancanza di punti di riferimento».
Veltroni, questo nuovo capitolo di Buonvino è un giallo «politico», nel senso dell’afflato civile che si cela dietro al noir.
«Il noir è un genere che da sempre nella sua narrazione ha una forte potenza sociologica. Perché è racconto popolare e crea un meccanismo di gioco con il lettore, che fa a gara con l’autore per scoprire l’assassino prima del finale. Questo catalizza la sua attenzione e permette a chi scrive di sviscerare altri significati. Era così anche nel cinema con la commedia all’italiana, che dietro alla comicità svelava il disagio».
Non casualmente ha scelto l’ambientazione del circo. Fellini, a cui lei si ispira, lo definiva luogo di allegria e inquietudine.
«Il circo è ambiente ambiguo, di contrasti, lo diceva Fellini, ma anche Chaplin. C’è una doppia dimensione nel circo: la magnificenza degli spettacoli e la malinconia degli artisti. È come il tempo in cui viviamo: dietro l’apparente allegria, esuberanza, ricerca di visibilità, si cela un senso di solitudine, disagio, risentimento, rancore sociale, depressione, soprattutto nei giovani».
Ne ha scritto di recente anche sul «Corriere della Sera».
«È perché non sopporto il negazionismo di chi afferma che è sempre stato così. Non è vero. In passato il caso Maso o il delitto di Novi Ligure erano eccezioni, oggi la violenza non è più episodica».
Definisce Bonvino buono e gentile, un ragionatore che detesta la violenza, non solista ma direttore d’orchestra. Insomma, c’entra poco con quest’epoca sopra le righe e narcisa. Eppure, il pubblico lo adora. Come se lo spiega?
«Forse perché non se ne può più della cacofonia che ci circonda e ha proprio bisogno di questo, almeno nei libri, cioè di un personaggio non sopra le righe, che usa la testa e non è aggressivo o rissoso. Buonvino è empatico, non usa la pistola e perfino quando gli tocca arrestare qualcuno non lo fa a cuor leggero perché conosce il valore della libertà negata. Buonvino è un anatomopatologo del sentimento umano».
Si riconosce?
«Nei personaggi letterari c’è sempre un po’ dell’autore. Credo mi somigli nei tratti caratteriali».
La accuseranno di buonismo, ancora una volta…
«Credo che la gentilezza non sia un punto debole, ma di forza. E che non sia solo una virtù, ma una predisposizione che si dovrebbe avere nel relazionarsi».
Anche in politica?
«Certo. La politica può e deve essere dura, ma non può fondarsi sull’odio e il rancore sociale. Nella sua durezza deve mantenere un profilo di rispetto. Non può ridursi a un Ok Corral dove l’unico obiettivo è eliminare l’avversario».
Oggi è così?
«Per molti aspetti, anche se non bisogna generalizzare, ci sono tante persone perbene in politica. Per questo non mi piace chi coltiva un sentimento antipolitico. La politica è meravigliosa, serve a risolvere i problemi. E avere un’etica e un’ideale dà senso all’esistenza. Altra cosa, diversa, è il potere».
Lei è tra i pochi leader che a un certo punto lo ha mollato e si è reinventato regista e scrittore.
«Avere delle altre passioni mi ha permesso di non avere un rapporto morboso con la politica e distinguerla dal potere. Ma nella mia vita non c’è stato nessun punto di rottura. Si fa politica, intesa come impegno e passione civile, anche scrivendo libri o sui giornali, o dirigendo un film. È un altro modo. Lavoravo tanto prima e lavoro tanto adesso».
Prima accennava alla mancanza di punti di riferimento. Per questo, dopo 40 anni, è ancora potente la figura di Berlinguer, a cui lei ha dedicato un documentario e che è tornato al cinema con il film di Segre? O è solo nostalgia?
«È anche, ma non solo, nostalgia. Ed è certamente la ricerca di una bussola a cui aggrapparsi per uscire dal disorientamento che viviamo, anche tra i giovanissimi. Ma credo ci sia qualcosa di ancora più significativo: Berlinguer è stata una personalità talmente innovativa che è ancora attuale. E la sua enorme dirittura morale e la sua concezione alta della politica lo rendono una figura storica di primo piano da cui trarre ancora ispirazione».