L'intervista

lunedì 25 Dicembre, 2023

Zucchelli, il medico e musicista che doveva suonare al fianco dei New Trolls

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A lungo in servizio all’ospedale di Rovereto, ora in pensione, confessa: «Ho amato moltissimo il mio lavoro, porta al cospetto della vita». E ricorda quando pensò di mollare Ginecologia per la chitarra

Ha dedicato la propria vita all’arte di Fenarete, la levatrice madre di Socrate: Claudio Zucchelli è il maieuta che ha accompagnato nel mondo migliaia di bambini. Classe 1946, una laurea in Medicina e Chirurgia a Parma con specializzazione in Medicina-Igiene Scolastica e in Ginecologia e Ostetricia. L’intera esistenza l’ha passata nel nosocomio cittadino (ma dal 1999 al 2003 è stato primario a Tione) a fianco delle partorienti. Dovessimo cercargli degli aggettivi ne troveremmo parecchi: disponibile, generoso, spiritoso, rigoroso, mai supponente, entusiasta della vita, del prossimo, della bellezza che a volte si nasconde dietro al buio, oltre che irrimediabile tabagista («A periodi», celia). Impegnato in esperienze di volontariato, è andato in Brasile, Eritrea, Vietnam del Nord, è a fianco della Lilt e impegnato nell’hub vaccinale di Sacco. Ma la sua vita è stata anche illuminata dall’arte; suona, recita e sa ancora avvertire il profumo di mele che stazionava alle Dame Inglesi dove iniziò le scuole.

Dottor Zucchelli, quanti bambini ha fatto nascere nella sua carriera?
«Negli anni d’oro, all’ospedale di Rovereto c’erano in media di 1200-1400 parti all’anno. Noi eravamo solo in quattro, il professor Bruno Grigolo con il dottor Silvano Maistri si occupavano dei casi più difficili, Giorgio Arioldi e io, assistenti, eravamo reperibili a giorni alterni. Arioldi era una cara persona, di grandissima umanità».
È una sorpresa sapere che è nato a Roma.
«Per mia madre i giorni dell’attesa si compirono quando si trovava, da crocerossina, nella capitale. A 10 giorni mi misero in una scatola di cartone con l’ovatta sulla tradotta che trasportava i feriti a casa, tra cori degli alpini e grappa che, forse, diedero anche a me, per farmi dormire».
In pensione come iniziano le sue giornate?
«Mi alzo alle cinque e mezza, faccio il caffè, prendo una sigaretta, ma non lo scriva, e vado alla finestra a controllare il Turri che arriva (l’edicolante di Piazza Rosmini, ndr). Ci salutiamo a distanza, poi arrivano il furgone con i giornali e i primi clienti».
Un magnifico quadretto alla Bruegel. Come è stata la sua giovinezza a Rovereto?
«Divertente, tra oratorio e campo Quercia; abitavamo in Via Paganini, nella stessa casa di Aldo Oradini, grande alpino che mi caricava sulla sua piccola lambretta, una delle prime, e mi portava in giro. Era maestro a Sacco, come Emma Cavalieri che, non lo sapevo ancora, sarebbe diventata mia suocera: io ed Emiliana ci siamo conosciuti al ballo liceale, all’Hotel Vittoria, in cui cantavo. Ricordo con gratitudine alcuni professori di Liceo, Livio Caffieri, Luciano Miori, il preside Umberto Tomazzoni… Poi ho avuto la fortuna di lavorare in ospedale accanto a personalità come quelle del professor Mario Reich, primario chirurgo, Bruno Grigolo, primario ostetrico ginecologo, ed Ermenegildo Signori, chirurgo ginecologo».
Lei è anche musicista; i medici sono spesso artisti, musicisti, pittori, scultori…
Medicina e arte, sono entrambe dimensioni dello spirito umano, molto simili perché vitali, creative, mettono in contatto col nucleo più misterioso dell’esistenza».
Quando ha iniziato a sentirsi musicista?
«Da bambino suonavo il flauto, ma soprattutto mi piaceva cantare. Al primo anno di Università, con un gruppo di amici di Riva del Garda fondammo gli “Argonauti”, poi diventato “TK five group”. Nel ’68 ci cercarono per accompagnare al Sociale Marisa Sannia, appena classificata seconda al Festival di Sanremo. Quella sera nel pubblico c’era il proprietario del Cinema Nuovo di Baselga che, ipso facto, ci fece un contratto per tutto il mese di agosto: 5 mila lire a testa ogni sera, spesati. Una manna e per un attimo la tentazione di privilegiare la musica fu forte. Eravamo anche diventati grandi amici dei New Trolls, che ci volevano nei concerti come loro gruppo fisso d’apertura. Fu un momento di grandi ambasce, discussioni, riunioni, alla fine però prevalse il buon senso. Dovevamo laurearci, così ci accontentammo delle nostre serate a Riva e al Lajadira di Moena. Io mi laureai regolarmente, al sesto anno, il giorno di Santa Lucia del 1971. Comunque quello con la musica è stato un lungo viaggio da autodidatta, suonando in chiesa, con Sandro Zambra e mia figlia Elisabetta che dirigeva il coro, approdando al gruppo “I Risentiti”, con l’epopea degli Amici dell’Operetta: le prove, i bambini, la scuola di Maria Bruna Fait… bravissima».
Cosa ricorda con maggiore soddisfazione?
«“La gabbianella e il gatto” di Sepulveda e “Il canto di Natale” di Dickens in cui facevo la statua di gesso: un quarto d’ora immobile, in una cassa verticale, e poi un rap pazzesco, il dialogo serrato con Aurelio Cunial, alias Scrooge, il canto soavissimo firmato da Andrea Amplatz… e il finale straordinario: “Gli unici tesori che ti puoi portare appresso per l’eternità sono gli incontri che hai fatto, sono le mani che hai stretto, sono le lacrime che hai asciugato, Scrooge, il denaro buttalo via, buttalo via da te». Invece, purtroppo, il denaro resta il grande totem».
Come iniziò a fare il medico?
«Una settimana dopo la laurea ero già in ospedale come borsista. Per due anni andai in sala operatoria tutte le mattine, in attesa che si liberasse un posto in Ostetricia, a testa bassa, col professor Reich. Ho imparato moltissime cose in quell’occasione, specialmente dai vecchi infermieri, che sapevano fare di tutto: posizionare cateteri, infilare sondini nello stomaco senza procurare dolore… è un’arte! Nei cameroni a 28 letti di terza classe ho imparato le pratiche quotidiane che l’Università non insegna».
Tornasse indietro?
«Rifarei assolutamente tutto. Ho amato moltissimo il mio lavoro. Quando mi chiedono perché mi sia specializzato in ostetricia, scherzando rispondo: per capire come nascono “i popi”, visto che nessuno me lo aveva voluto dire. A quell’epoca nessuno ti parlava dell’apparato riproduttivo, i libri del Liceo presentavano solo l’apparato urinario. Oggi già alle medie parlano di cromosomi, fecondazione, apparati genitali, ma ai miei tempi per sapere come esattamente andassero le cose si doveva comprare il manuale di anatomia Chiarugi, sei volumoni indigesti. Comunque ostetricia è bellissima, porta al cospetto della vita».