L'editoriale al T
giovedì 20 Luglio, 2023
di Viviana Sbardella*
In questo inizio d’estate abbiamo visto l’attenzione, anche a livello nazionale, focalizzata sulla non ammissione di alcuni studenti trentini all’Esame di Stato finale del quinquennio di scuola superiore. Nei giorni in cui l’armata Wagner metteva in crisi la Russia, sui social e sulla stampa si dava quasi pari spazio a due casi di cronaca scolastica legati al nostro territorio. All’inizio occupano le pagine dei giornali i sei studenti della classe del Rosmini di Trento non ammessi all’Esame di Stato. Qualche giorno dopo esplode il caso della studentessa del «Da Vinci» che decide di fare ricorso al Tar contro la sua non ammissione. Sono storie evidentemente diverse, ma entrambe sollevano domande di fondo.
Tra gli studenti del Rosmini nessuno decide di seguire la via del ricorso, anche se qualcuno un pensiero in tal senso l’ha fatto. Le famiglie sostengono di aver compreso e condiviso la decisione della scuola, almeno pubblicamente. Il dirigente scolastico dice in un’intervista che questa vicenda è la conseguenza del Covid (solo questa classe ha subito conseguenze del Covid?) e che i docenti sono stati «buoni» lo scorso anno.
La domanda di fondo qui è: cosa significa essere buoni? A scuola siamo chiamati ad essere professionali e questo significa competenti nella disciplina, nelle metodologie didattiche, nell’approccio relazionale e molto altro ancora. L’ex ministro Bianchi parlava spesso di scuola «affettuosa», credo che fosse difficile per molti comprendere cosa intendesse, ma per noi persone di scuola era abbastanza chiaro: una scuola accogliente ed inclusiva. Il che non vuol dire affatto «pacca sulla spalla e via tutti promossi all’anno successivo». Significa invece creare le condizioni affinché gli studenti possano esprimere il meglio delle loro potenzialità, diverse per ognuno perché ognuno di loro ha capacità, interessi, attitudini, progetti di vita molto diversi.
Non si può negare che un gruppo di docenti che «perde» sette studenti all’ultimo anno di scuola susciti qualche perplessità. Sette, non sei, uno degli studenti si era ritirato in corso d’anno, 21 studenti a settembre, 14 ammessi all’esame di maturità. Ma il dirigente, uomo di lunga e onorata carriera, sostiene che tutto è stato gestito al meglio.
Il secondo caso è quello della studentessa per la quale la famiglia ha deciso di ricorrere ai giudici per sfiduciare il consiglio di classe che ha deciso di non ammetterla all’esame. Innanzitutto chiariamo che è un loro diritto, qualora non ritengano la decisione del consiglio di classe equa. Precisiamo anche che, di solito, i giudici si pronunciano sulle questioni che attengono alla forma e assai raramente entrano nel merito della valutazione delle discipline e questo spiega l’ammissione a sostenere l’esame con riserva.
Io non conosco personalmente questa ragazza né il suo percorso scolastico precedente, ma se è arrivata alla fine dell’anno con cinque insufficienze deve aver avuto perlomeno un anno difficile. Non so neppure cosa abbia indotto i genitori ad intraprendere un percorso in aperto contrasto con la scuola, in che modo per loro non ha funzionato il dialogo con l’istituzione alla quale hanno affidato la loro figlia. I genitori si sono armati di avvocati nel cortile della scuola, i docenti si sono sentiti attaccati nella loro professionalità, la ragazza si è ritrovata tra questi due fuochi.
La domanda di fondo qui è: chi ha pensato davvero al bene della ragazza?
Lo dico senza vena polemica, perché la cosa mi dispiace davvero, ma credo che nessuno abbia seriamente pensato al suo bene, almeno in queste ultime settimane. Non i genitori, che forse non si aspettavano un tale impatto mediatico, ma neppure quei docenti che si sono presentati in massa a mostrare solidarietà ai colleghi. Con la ragazza in mezzo, schiacciata.
La famiglia e la scuola sono le due principali agenzie educative che dialogando, anche partendo da posizioni diverse e talvolta lontane, devono trovare una sintesi, perché ciò che conta è il benessere dello studente, null’altro. In questo caso è evidente che non è andata così, però non dobbiamo neppure esagerarne la portata: come diceva l’antico filosofo, fa più rumore un albero che cade che un’intera foresta che cresce.
Del resto sono stati tanti gli studenti trentini non ammessi all’esame o alla classe successiva che gli insegnanti, dotati della professionalità che contraddistingue la maggior parte dei nostri docenti, hanno accompagnato, insieme alle loro famiglie, ad accettare l’esito negativo, analizzandone le cause e pianificando i passi futuri.
Sia la scuola che la famiglia dovrebbero agire in modo da trasformare un insuccesso in apprendimento, facendo così acquisire consapevolezza e capacità di autovalutazione allo studente. Uno scontro così duro come l’abbiamo visto in questi giorni certo non va in questa direzione.
* Sovrintendente scolastica provinciale
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