Il forum del T
domenica 17 Marzo, 2024
di Marco Ranocchiari
Cooperazione transfrontaliera e autonomia sono due facce della stessa medaglia, inseparabili e cementate da una storia millenaria comune ai due lati del Brennero, e uno strumento potente verso un’«Europa dei territori». Ne è convinta Elisa Bertò, del Segretariato generale del GECT (Gruppo Europeo di Cooperazione Territoriale) Euregio Tirolo – Alto Adige – Trentino per la Provincia di Trento. Docente al Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, Bertò è stata ospite del Forum de «il T Quotidiano», con il direttore, Simone Casalini, e il caporedattore, Lorenzo Ciola.
Elisa Bertò, come spiegherebbe la realtà dell’Euregio a un cittadino medio?
«In Europa i GECT sono 79, ma sono perlopiù enti funzionali che nascono tra regioni di confine di stati diversi per gestire questioni comuni come un ospedale, un parco, una pista ciclabile. A differenza delle altre, la nostra Euregio è l’unica a nascere da una cooperazione millenaria, profonda e radicata. Da noi, quindi, il GECT dà una cornice istituzionale a una collaborazione che esisteva già, rendendola più concreta, capace di istituire tavoli di lavoro, mettere in campo risorse. Inoltre il nostro GECT coinvolge territori già autonomi con, quindi, ulteriori possibilità. Ma bisogna spiegare anche quello che l’Euregio non è: non è un’altra istituzione, un livello ulteriore che appesantisce la politica, ma al contrario un modo per concretizzare le iniziative».
Come agisce concretamente?
«Il GECT è, o dovrebbe essere, una piattaforma attraverso cui le amministrazioni si rivolgono per rispondere a esigenze o per incanalare spunti, in un dialogo tra le amministrazioni. Per esempio, un dipartimento delle amministrazioni come quello dello Sport, o del Lavoro o della ricerca può chiamarci e insieme metteremo in piedi un tavolo di lavoro o di dialogo, si indagano le diverse esigenze dei territori. Il confronto è importante perché spesso non si conosce come gli altri affrontano lo stesso problema, a volte le politiche locali dei vicini aiutano comunque a capire in quale direzione andare, ad agire con una cognizione di causa più larga e non solo sul piano locale».
Quali sono gli ambiti in cui il ruolo del GECT è stato più determinante?
«Probabilmente quelli legati al mondo della scuola, un tema su cui la presidenza trentina dell’Euregio conclusa nel settembre dell’anno scorso, che aveva come motto “l’Euregio è giovane”, ha insistito molto. Abbiamo messo in rete i ragazzi su diversi piani, e intensificato le attività nelle scuole, con nostri collaboratori disponibili tutte le settimane per spiegare il GECT sul piano storico, culturale e giuridico. C’è inoltre il portale “Euregio macht Schule”, Euregio fa scuola, cui gli insegnanti possono accedere a contenuti in tre lingue (da poco c’è anche il ladino), esistono concorsi per promuovere l’Euregio, e osserviamo che le scuole che non partecipano scaricano e utilizzano spesso il nostro materiale, e l’adesione sta crescendo molto negli ultimi anni, soprattutto in Trentino».
Quali sono invece, i maggiori ostacoli verso la cooperazione transfrontaliera?
«Gli ostacoli non culturali o nell’atteggiamento – la cooperazione è vissuta come un fatto normale, e lo è ancora di più per le nuove generazioni – ma, molto più concretamente a frenare sono le differenze linguistiche».
Il nostro GECT è stato istituito nel 2011 e riformato nel 2021. In che modo sta evolvendosi?
«Il periodo del Covid aveva messo profondamente in crisi la cooperazione internazionale, praticamente svuotando anche le funzioni del GECT Si quindi capito che bisognava riformarlo e democratizzarlo, farlo diventare veramente un ponte tra i cittadini dei diversi territori. Si sono perciò introdotti, per esempio, organi come il Consiglio dei comuni – che si è riunito recentemente a Cavalese per affrontare il problema del bostrico – il consiglio dei cittadini, le giunte specializzate. Ora a incontrarsi non sono solo i tre presidenti ma anche gli assessori della stessa materia, si possono proporre intese e accordi, bilaterali e trilaterali».
Progetti, invece, rivolti al futuro?
«Gli strumenti ci sono, quello che dobbiamo aspettarci è che in futuro politica e istituzioni si rendano sempre più conto che il GECT è uno strumento che permette di sviluppare politiche significative di ampio respiro ma anche sul piano locale, in progetti in seno ai singoli assessori, alle singole legislature. Serve solo un po’ più di coraggio. A livello progettuale le cose nascono già, tocchiamo tantissimi temi, dalla Protezione Civile all’imprenditoria femminile, l’aspetto culinario, la mobilità. Per esempio ora il presidente Kompatscher punta sulla possibilità di avere un ticket unico per i cittadini, da Borghetto a Kufstein».
Guardando agli altri GECT in Europa quali sono gli esempi a cui ispirarsi?
«Spesso, quando si va all’estero, si finisce per farsi piacere di più quello che sia a casa, il nostro esempio è davvero un punto d’appoggio per gli altri. In Europa c’è però tantissimo da imparare.
Ed esempi di autonomia che fanno da riferimento?
«Il caso più straordinario è quello finlandese delle Isole Åland (l’arcipelago del Mar Balitco autonomo, demilitarizzato e a prevalente lingua svedese, ndr). È l’autonomia più vecchia che abbiamo, ha compiuto cent’anni l’anno scorso, e sta riformando il suo Statuto per la terza volta, andando sempre nella direzione del corroboramento delle strutture di dialogo e di apertura guardando oltre il proprio territorio di appartenenza, come il Consiglio Nordico e insistendo su temi come la pace. Le differenze col nostro territorio sono tante, ma la loro capacità di tendere all’autonomia guardando all’esterno è senz’altro un esempio».
Dalla sua formazione in Filosofia della politica e una specializzazione sulle autonomie comparate, qual è la sua visione sul dibattito politico su presente e futuro non solo della cooperazione ma dell’autonomia?
«Agli studenti dico sempre che prima di essere autonomisti bisogna essere autonomi: capire criticamente che cos’è l’autonomia, e cioè un modo di relazione, di stare dentro uno Stato o una comunità più vasta. Anche gli Stati più centralizzati hanno qualche forma di autonomia, e vederla come un privilegio è una follia. Perché è tutto il contrario, è un’assunzione di responsabilità, ed è così che storicamente il Trentino Alto Adige l’ha usata. Dal Secondo Statuto in poi si sono chieste sempre competenze in più, non soldi in più. Come diceva De Gasperi, la sfida per i territori autonomi è saper fare meglio dello Stato, andando anche oltre la dimensione etnica e linguistica. L’autonomia è come una Ferrari, uno strumento straordinario che va ben guidato».
C’è un futuro per la Regione Trentino Alto Adige?
«La Regione non è solo una cornice finta, ma la forma che ha consentito ad Alto Adige/Südtirol e Trentino di vedersi riconosciuta l’autonomia nel 1948. Ed è ancora un frame che funziona, innanzitutto per ricordarci che se non siamo insieme, non abbiamo una funzione comune. Un’autonomia tripartita regione, provincia provincia è un unicum nel mondo che andrebbe preso più sul serio. L’Euregio è un modo per parlare della regione in un altro modo, aiuta a pensare all’autonomia non solo nella sua dimensione interna di autogoverno ma in quella esterna di relazione».
Come immagina l’Europa tra trent’anni, tra autonomie e Euregio?
«Immagino sempre di più un’Europa delle regioni, delle euroregioni e dei territori. La mondializzazione sta mettendo in crisi i confini, ma le spinte arrivano anche dall’interno, i territori chiedono di essere ascoltati. E l’essere vicini, in termini anche di ascolto delle esigenze e sarà una prospettiva che non può essere ignorata. L’Euroregione ha quella dimensione mediana per agevolare meccanismi di presenzialismo del territorio nelle diverse fasi di scrittura delle politiche europee».