le interviste del pezcoller

martedì 26 Novembre, 2024

Elisa Oricchio: «Studio frammenti di tumore e cerco terapie personalizzate»

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La direttrice dell’istituto svizzero per la ricerca sperimentale sul cancro: «L’obiettivo è capire come evolverà il tumore e aiutare i pazienti»

Studiare il cancro partendo da «domande cliniche concrete» a cui rispondere con approcci innovativi, dalla struttura del Dna in 3D agli «avatar» fatti di frammenti di tumore per mettere a punto nuove terapie personalizzate. Sono varie e innovative le linee di ricerca sviluppate da Elisa Oricchio nel laboratorio che dirige presso l’Isrec (Istituto di ricerca sperimentale sul cancro, parte del politecnico di Losanna, di cui è direttrice), che le sono valse il prestigioso premio Translational Cancer Researcher Award 2024 assegnato dalla Fondazione Pezcoller e dall’Eacr (European Association for Cancer Research). La ricercatrice terrà oggi una lecture al dipartimento Cibio dell’università di Trento (Povo, alle 16.30). Nata a Vallo della Lucania (Salerno) nel 1979, Oricchio si è laureata in Biologia a Roma. Prima di arrivare in Svizzera dieci anni fa ha lavorato sei anni al prestigioso Memorial Sloan Kettering di New York.
Oricchio, cosa ha significato per lei ricevere il Translational Cancer Researcher Award?
«Per me è stato un piacere immenso: la Pezcoller Foundation è riconosciuta a livello internazionale come una fondazione che spinge la ricerca ad altissimo livello, e questo premi, in collaborazione con l’Eacr, è per me particolarmente significativo in quanto promuove l’eccellenza della ricerca in Europa».
Per portare avanti le sue ricerche si è recata oltre oceano, e infine è ritornata in Europa, ma in Svizzera. Adesso questo premio la riporta per un po’, simbolicamente, in Italia. È il destino di ogni ricercatore quello di spostarsi?
«Vengo da un piccolo paese nel sud Italia, e per fare ricerca di alto livello era necessario spostarsi. Tuttavia, per fare ricerca la mobilità è sempre importante, anche se ti trovi nel miglior centro di ricerca del mondo. Vedere realtà diverse, confrontarsi con altri istituti, amplia la visione scientifica e permette di affrontare i problemi in modo differente. Dell’Italia ho apprezzato tantissimo la qualità del sistema educativo. E anche il supporto pubblico e le borse di studio, che per me sono state fondamentali durante il percorso universitario».
Lei si occupa di ricerca traslazionale, un ambito forse poco conosciuto ai non addetti ai lavori che della lotta al cancro sentono parlare solo a livello clinico. In cosa consiste?
«La ricerca traslazionale parte da una domanda clinica concreta, a partire dalla patologia, non dalla biologia di base. A questo punto si usano i mezzi della ricerca su basi sperimentali, ma sempre mantenendo l’obiettivo di modificare o migliorare la pratica clinica. Per esempio, se si osserva che un tumore diventa resistente a una terapia, si studia il meccanismo di questa resistenza per trovare trattamenti alternativi. È un continuo scambio di feedback con l’ambito clinico».
Quali sono le sue aree di ricerca?
«Nelle cellule tumorali dei pazienti il Dna subisce significative alterazioni, non solo mutazioni nella sequenza, ma anche cambiamenti strutturali. L’aspetto innovativo del nostro approccio è considerare la dimensione tridimensionale del genoma, non solo quella lineare: il Dna si trova all’interno di uno spazio abbastanza ristretto, e cerchiamo di capire come la sua disposizione influenza la capacità delle cellule tumorali di diventare aggressive e proliferare senza pausa. Inoltre cerchiamo i therapeutic target, ovvero geni che potrebbero essere nuovi bersagli per terapie antitumorali. Quando identifichiamo un gene interessante, dobbiamo comprenderne la funzione e sviluppare metodologie per inibire o alterare l’attività della proteina correlata, con l’obiettivo di ottenere un’azione antitumorale».
Vi occupate inoltre di un ambito molto promettente nella lotta al cancro, le terapie personalizzate. In che modo?
«Abbiamo sviluppato una collaborazione con ospedali della Svizzera francese per creare quelli che chiamiamo “avatar dei pazienti”: usiamo dei frammenti di tumore, prelevati durante le biopsie dai pazienti che danno il loro consenso. In laboratorio, lo suddividiamo in piccoli pezzi e vi testiamo varie terapie, mantenendo la struttura del tumore il più naturale possibile, cercando di capire quali siano più efficaci».
Quanto manca a un’applicazione clinica di queste ricerche?
«Finora abbiamo testato circa 30 pazienti, e ci avvaliamo di continui confronti tra quello che otteniamo in laboratorio e quello che accade in clinica. Ora puntiamo ad arrivare a 60 pazienti e dimostrare la validità del metodo. L’obiettivo è sviluppare un modello veramente predittivo di quello che accadrà al tumore e che possa aiutare quindi direttamente il paziente. Ci concentriamo soprattutto sui linfomi, ma applichiamo questo approccio di terapia personalizzata anche ad altri tumori, come quelli del polmone, del colon e della vescica».
Guardate anche ad altre linee di ricerca promettenti?
«Sì, siamo interessati a comprendere perché i tumori sono così eterogenei, non solo tra pazienti, ma anche all’interno dello stesso paziente in diverse regioni dello stesso tumore. È per questo che una terapia può eliminare completamente alcuni tumori molto omogenei mentre in altri casi, la terapia colpisce solo una parte, lasciando piccole porzioni di cellule diverse che poi possono ricrescere anni dopo. Siamo molto interessati anche ai recenti sviluppi nell’ambito delle cellule ingegnerizzate, in particolare agli “antibody drug conjugates”, che mirano a colpire specificamente le cellule tumorali, riducendo gli effetti collaterali tossici».
Altri progetti in cantiere?
«Mentre gli studi sulla struttura del genoma possono essere utili in ambito diagnostico, nella parte terapeutica abbiamo sviluppato terapie che nei test preclinici e su modelli animali sembrano molto promettenti. Ora stiamo cercando di sviluppare una startup per ottimizzarle e portarle verso l’ambito clinico».
A Trento oggi parlerà di tutto questo?
«Farò una panoramica dei progetti del laboratorio: il genoma, ma anche il microambiente, l’interazione con altre cellule, le terapie personalizzate e anche il metabolismo. Perché per comprendere il tumore bisogna guardarlo nella sua globalità e non dai singoli punti di vista».