Sociale
domenica 26 Novembre, 2023
di Serena Torboli
Negli ultimi anni, anche l’Italia ha assistito al diffondersi del fenomeno sociale degli hikikomori, termine di origine giapponese che descrive giovani adulti che scelgono volontariamente l’isolamento sociale estremo e non escono di casa e nemmeno dalla propria stanza. Il fenomeno ha le sue radici in Giappone, ma ha guadagnato terreno nel tessuto sociale italiano, suscitando preoccupazioni e stimolando la riflessione sulla società contemporanea.
Per fare divulgazione su questo tipo di difficoltà e per suggerire percorsi di uscita, ieri alla sala Filarmonica l’associazione Hikikomori Italia ha organizzato «Non esco più», incontro sulle nuove forme di disagio nei giovani di oggi e il fenomeno degli hikikomori, in collaborazione con l’Università degli studi di Trento e il Rotary club Rovereto Vallagarina.
Gli hikikomori italiani, hanno spiegato ieri mattina i relatori, sono individui giovani che si ritirano dalla vita sociale e si rinchiudono nelle proprie stanze per lunghi periodi di tempo. Ansia da accettazione, pressione scolastica, difficoltà a inserirsi nel tessuto lavorativo o nel contesto sociale sono tra le diverse cause che possono attivare questo tipo di comportamenti. E nel contesto della propria stanza, spesso è il mondo online quello in cui ragazzi e ragazze passano il loro tempo. Il prolungarsi di questo tipo di comportamenti rende poi sempre più difficile uscire e riattivare le connessioni sociali.
Per uscire dalla pura dissertazione teorica, Danila Bugli racconta la propria esperienza di madre: «Abbiamo faticato all’inizio a ricondurre a questo tipo di fenomeni quello che stava succedendo a mio figlio, ma è calato su di noi come una specie di cappa». Spesso il disagio viene scambiato per una dipendenza da computer, che però di solito è la conseguenza dell’isolamento, non la causa. Ma il fraintendimento fa sì che genitori ed esperti si muovano in direzioni sbagliate, ad esempio disattivando improvvisamente la connessione internet, o forzando il rientro scolastico: «Questo alla fine diventa il momento in cui i ragazzi chiudono la porta della stanza, oltre che quella di casa – spiega Marco Crepaldi, psicologo e fondatore di Hikikomori Italia – e purtroppo ciò scatena una reazione molto forte, in taluni casi anche violenta, soprattutto nei confronti delle madri».
La prima porta da riaprire è proprio quella della camera da letto, perché i ragazzi vedono anche nei genitori una forma di pressione dalla quale scappare, esattamente come scappano dalla scuola e dagli insegnanti. E quando vengono forzati a rientrare nel sistema scolastico, crollano, perché non si tratta di ragazzi svogliati ma di persone in burnout. E la leva della paura, che a volte viene utilizzata dai genitori che sottolineano i rischi di non prendere un titolo di studio, finisce per suscitare una reazione di tipo opposto, bloccando i ragazzi in un senso di immobilismo totalizzante.
I numeri del fenomeno registrati dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) sono allarmanti e si attestano nell’ordine dei 50-60 mila casi in Italia per la fase adolescenziale che precede l’abbandono scolastico. Quindi, sottolinea Crepaldi, comprendendo gli hikikomori veri e propri che non escono proprio dalla camera, le dimensioni sono davvero impressionanti: «Probabilmente la nostra stima di 100 mila casi in realtà è bassa. E, poiché è un disagio che investe tutta la famiglia, la scuola e le istituzioni a vari livelli, è possibile parlare di mezzo milione di persone impattate da questo fenomeno».
Spesso il ritiro sociale volontario avviene in occasione delle fasi di transizione tra livelli scolastici: tra le elementari e le medie, tra le medie e le superiori, o nel momento dell’iscrizione all’università.
Ma cosa si può fare se un figlio o una figlia non escono più? A questa domanda ha provato a rispondere Elena Carolei, presidente di Hikikomori Italia Genitori, l’associazione nazionale che fa capo a quattromila famiglie. «Abbiamo creato un’organizzazione strutturale tra gruppi di famiglie e di genitori che si incontrano periodicamente circa una volta al mese con il supporto di uno psicologo professionista, formato proprio per confrontarsi e cercare modalità di relazione e strade. La nostra associazione è nata nel 2017 proprio perché le famiglie si trovavano a gestire un problema fino ad allora sconosciuto e che generava una serie di problematiche anche paradossali». Uno dei grandi problemi è proprio che i ragazzi molto raramente accettano un aiuto, tanto meno dalla famiglia, che spesso viene rifiutata. Infatti, la famiglia stessa non è portata a comprendere perfettamente che cosa sta avvenendo al proprio figlio e spesso le azioni che compie sono le meno adatte, e così il ragazzo fugge anche dall’aiuto di chi gli sta più vicino. «Un altro paradosso – continua Carolei – è il fatto che comunque si tratta spesso di ragazzi che vanno molto bene a scuola, ma poi la abbandonano: sono persone che non evitano la scuola per non studiare, per loro anzi è persino più facile che per gli altri. Evitano la scuola perché soffrono nella relazione. Fuggono dalla società e vivono un forte vissuto di vergogna, di paura del giudizio, soprattutto dei coetanei».
Importante quindi il confronto tra i diversi pareri anche in ambito accademico, come avvenuto ieri in città, quando i relatori presenti hanno illustrato quanto i cambiamenti a livello sociale e in particolare l’invecchiamento della popolazione e la riduzione di nuove nascite, il cosiddetto inverno demografico, possano essere la cornice che spiega in parte i contorni del fenomeno
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