Terra Madre
venerdì 26 Luglio, 2024
di Giovanni Beber
«Kioo in swahili significa vetro, e abbiamo scelto questo nome perché il concetto di trasparenza per noi è molto importante. L’errore più comune che un’azienda può fare è infatti quello di raccontarsi più green di quanto non sia», spiegano Federica De Muzio e Anna Bugna, fondatrici di Kioo Studio, agenzia di comunicazione socia del distretto tecnologico Habitech. Per affrontare efficacemente il «greenwashing» (cioè l’ambientalismo di facciata) è infatti essenziale garantire che le dichiarazioni ecologiche delle aziende siano autentiche e verificabili. «Come tutte le caratteristiche che un’azienda deve avere, la transizione deve essere comunicata nel modo giusto, per evitare di incappare nella trappola del greenwashing — spiega Federica De Muzio — L’elemento fondamentale deve essere una predisposizione sincera nei confronti della sostenibilità da parte dell’azienda». Negli ultimi decenni, l’attenzione verso le problematiche ambientali è cresciuta in modo esponenziale, portando le aziende a rivedere le loro politiche in chiave ecologica. Tuttavia, non tutte le iniziative dichiarate come «verdi» sono autentiche. Il termine greenwashing si riferisce a pratiche di marketing ingannevoli adottate da alcune aziende per far apparire i loro prodotti, servizi o politiche come ecologicamente responsabili, mentre in realtà non lo sono. Questo fenomeno è diventato una questione critica, poiché distorce la percezione dei consumatori e ostacola gli sforzi autentici verso la sostenibilità. In un rapporto del 2020, Corporate Knights – rivista che si occupa di media e di ricerca sull’economia sostenibile – ha stimato che il 40% delle dichiarazioni ambientali fatte dalle aziende nelle loro comunicazioni di marketing possono essere considerate greenwashing. Inoltre, uno studio del 2019 condotto dalla European consumer organisation (Beuc) ha rilevato che il 42% delle dichiarazioni ecologiche online sono esagerate, false o fuorvianti. In questo modo, anche se una fetta sempre maggiore di cittadini sta prendendo coscienza dei rischi correlati al greenwashing, questa pratica resta diffusa e coinvolge un’ampia gamma di settori, tra cui quello edile e dell’energia. In questi settori il greenwashing ha un impatto significativo sui consumatori, che finiscono per fare scelte di acquisto basate su informazioni fuorvianti o perdono fiducia nelle dichiarazioni ambientali autentiche. Nel 2021 Cone Communications – azienda che si occupa di relazioni pubbliche, marketing e comunicazione strategica – ha rilevato che il 68% dei consumatori non si fida delle dichiarazioni ecologiche delle aziende. Per combattere il greenwashing, vari Paesi e organizzazioni internazionali hanno introdotto normative e linee guida. L’Unione europea, ad esempio, ha implementato la direttiva sulle pratiche commerciali sleali, che vieta le dichiarazioni ecologiche ingannevoli. Inoltre, la Commissione europea ha lanciato l’iniziativa «New consumer Agenda» per migliorare la trasparenza delle dichiarazioni ambientali.
Inoltre, la dimensione comunicativa dei social media ha reso più stretta l’interazione tra il pubblico e un’impresa, ed è più facile per un cliente rendersi conto se ciò che viene raccontato corrisponde o meno alla realtà. «Educare i consumatori e informarli è fondamentale per contrastare il greenwashing — precisa Anna Bugna — ed è importante renderli consapevoli che la transizione è un processo che richiede tempo e investimenti per essere percorso. Per costruire questa consapevolezza, è necessario andare in profondità nel tema della sostenibilità e capire quali sono le pratiche e i processi che ostacolano la transizione, ma che magari non sono visibili nell’immediato. Ad esempio, la narrazione che cerchiamo di proporre a un’azienda che decide di cambiare il proprio business, da uno poco sostenibile a uno più ecologico, è quella di continuare ad aggiornare l’immagine che si dà di se stessi mano a mano che si procede lungo il percorso, e di convincere un cliente a premiare anche chi ha deciso di avviarsi nella transizione, anche se non lo ha ancora portata a compimento». Infine, anche la cura di una comunicazione sostenibile e l’attenzione agli impatti del digitale possono portare un’azienda a innovarsi. «Anche i server e i servizi di hosting che ospitano i siti web e le piattaforme digitali hanno un notevole impatto sull’ambiente — racconta Federica De Muzio — È fondamentale quindi misurare l’impronta digitale di un sito web e implementare pratiche sostenibili. In quest’ottica la scelta di appoggiarsi ad un server green rappresenta la prima azione per ridurre l’impatto ambientale del settore It». Un server green è un server progettato e gestito con criteri di efficienza energetica e sostenibilità ambientale. Questi server utilizzano tecnologie avanzate per ridurre il consumo di energia e l’emissione di calore, sfruttano fonti di energia rinnovabile e talvolta sono costruiti con materiali ecologici e riciclabili. Il beneficio principale è una riduzione delle emissioni di CO2: un server green, infatti, può consumare fino al 50% di energia in meno rispetto a un server tradizionale. «Questo è solo il primo passo — conclude Federica De Muzio — Il nostro obiettivo a breve-medio termine è infatti quello di rendere i siti che realizziamo sempre più sostenibili cercando di ridurre la loro impronta anche dal punto di vista del design e soprattutto del codice di sviluppo, adottando gli accorgimenti necessari per ottenere pagine più leggere e quindi “a consumo ridotto”».
La conferenza internazionale
di Redazione
L'intesa è stata siglata alla conferenza di Baku (Azerbaigian). Le risorse serviranno a limitare o ridurre le emissioni di gas a effetto serra