Univesità
domenica 19 Febbraio, 2023
di Simone Casciano
Le Stem – acronimo dall’inglese per science, technology, engineering and mathematics, ossia le discipline scientifico-tecnologiche – sono ancora un club per soli uomini. A testimoniarlo sono i dati che provengono dal bilancio di genere dell’università di Trento e quelli più generali sul sistema accademico italiano presentati dalla ricercatrice Monia Anzivino nel corso di una tavola rotonda dal titolo «Il genere conta? Donne e Scienza» organizzato giovedì dal Cibio. A livello nazionale le donne iscritte alle facoltà scientifiche sono il 37% contro il 63% degli uomini. All’università di Trento la situazione è addirittura peggiore il rapporto è praticamente 25/75 tra gli iscritti secondo l’ultimo bilancio di genere disponibile, quello 2021.
La situazione migliora leggermente nei primi ruoli di ricerca, le assegniste sono il 38,5% del totale, per poi precipitare di nuovo nei ruoli apicali. Le donne sono il 22% del totale dei professori Stem di seconda fascia e appena il 10% di quelli di prima. Anche in questo caso la prestazione dell’ateneo trentino è peggiore della media nazionale dove per la seconda fascia il rapporto è 35/65 e per la prima 20/80. Va detto però che la forbice in negativo riguardo ai ruoli più prestigiosi dell’accademia riguarda molti atenei e tutte le facoltà. Ad esempio, nonostante le donne siano il 63,3% degli assegnisti nelle facoltà di scienze umane all’università di Trento, già nella posizione di ricercatore o ricercatrice tornano in vantaggio gli uomini che rappresentano il 56,5% del totale e salgono al 77,3% tra i professori di prima fascia. Insomma qualunque ateneo e disciplina si valuti, quando si arriva alle posizioni apicali, il grafico si comporta sempre allo stesso modo, la freccia maschile sale verso l’alto mentre quella femminile si inabissa. Certo i dati fotografano la situazione del momento non il flusso quindi si può presumere che in futuro la situazione migliori e che il primato così marcato maschile nei ruoli apicali sia l’eredità di un tempo in cui c’era meno attenzione sul tema. Ma, come spesso succede, il diavolo si nasconde nei dettagli.
«È interessante guardare il dato dei ricercatori a tempo determinato di tipo A e B – dice Monia Anzivino ricercatrice del dipartimento di sociologia dell’Università di Trento – Perché queste sono posizioni nuove e in cui quindi non si può giustificare la disparità di genere con il retaggio accademico a prevalenza maschile». Qual è allora questo dato? Per le Stem a livello trentino le ricercatrici sono il 23,9% contro il 76,1% dei ricercatori.
A generare questa disparità di genere concorrono molti fattori, ad analizzarli è stata Barbara Poggio, prorettrice alle politiche di equità e diversità dell’università di Trento, professoressa ordinaria del dipartimento di Sociologia. «Questa disparità – dice Poggio – una volta veniva spiegata con teorie che sostenevano il primato maschile sulla donna nei campi scientifici su base biologica. Una differenza che oggi sappiamo essere assolutamente falsa. Quello che è vero sono invece gli stereotipi culturali e sociali per cui, fin dall’infanzia, a donne e uomini vengono attribuite caratteristiche diverse e che pongono la scienza lontana dal genere femminile. Questo contesto mina la loro autostima, la loro convinzione che sia possibile costruirsi una carriera nel contesto scientifico».
C’è poi il tema della genitorialità. «Spesso la decisione di avere figli coincide con i primi anni di carriera accademica. Il problema non è tanto la gravidanza, ma la cura dei figli. Viviamo in un mondo in cui i compiti ricadono ancora più sulle donne e dove c’è un giudizio negativo per gli uomini che vogliono prendersene cura. Tutto questo in un contesto lavorativo, quello accademico, che si basa spesso sulla dedizione totale, sul fatto che tu non abbia altro al di fuori di esso. Il risultato è che spesso il modello diventa quello di un genitore che fa carriera e uno che resta indietro spesso la donna».
Anche nelle opportunità lavorative in università ci sono criticità.«Ci sono degli studi che hanno diviso il lavoro universitario in compiti di produzione e di riproduzione» spiega Poggio. Produzione significa: pubblicazioni su riviste specializzate, fund raising e premi per progetti «ossia gli aspetti che permettono di fare carriera». Per riproduzione si intende invece il lavoro di didattica, le tesi, la terza missione, i compiti amministrativi «mansioni fondamentali della vita di un ateneo ma meno valorizzate». Gli studi hanno dimostrato che in Italia la produzione è ancora appannaggio prevalente degli uomini.
Come si migliora la situazione? Secondo Barbara Poggio attraverso tante azioni: «Stiamo lavorando sull’empowerment femminile. Bisogna sostenere la conciliazione famiglia lavoro con nidi e congedi parentali e non di maternità. Come ateneo abbiamo introdotto incentivi che sostengano le carriere femminili per cercare, a parità di eccellenza, di favorire l’equilibrio di genere». È fondamentale infine lavorare per rompere gli stereotipi di genere già nei bambini: «Quella è la cosa più importante – conclude Poggio – Dobbiamo rompere questi pregiudizi secondo cui, per esempio, le donne non sono portate per la scienza. È quello che abbiamo sempre fatto con i corsi “educare alla differenza di genere” nelle scuole. Certo prima con il supporto della Provincia era più facile, ma anche ora continuiamo da sole. Certo ci sarebbe bisogno di più risorse e di un lavoro sistemico per educare alla parità di genere e far capire a bambine e ragazze che non devono mettere limiti alle loro aspirazioni e ai loro sogni».